Vecchi post 3/ Papetti/Hopkins

Sottoscrivo in pieno le parole di Viola Papetti nel volume da lei curato in modo davvero mirabile Gerald Manley Hpkins – Dalle Foglie della Sibilla – poesie e prose: “Il traduttore non è in genere un buon critico. Traducendo scopre la sua infanzia nei confronti del poeta. Sperimenta una speciale intimità fisica col fantasma intensamente rievocato, un illuso anche se esigente innamoramento. Ascolta quella voce, tenta di apprenderne il senso, ma sa l’impertinenza e la vanità dello scambio fra quella parola per sempre e la propria, caduca e imitativa. Certe poesie di Hopkins sono perentorie e misteriose come ordini. Qualcosa di simile a una traduzione dal verosimile al possibile diventa necessaria anche all’atto della lettura. Poi la lettura si fa aggressiva, inquisitoria, e trapassa, tra mille ripensamenti e prove di voce, nella traduzione. Queste poesie, impervie e imperative, cedono solo un effetto di senso. Un miraggio di senso. Ho fissato quel miraggio.”
Conosco lo scatto della lettura aggressiva cui ti costringe la traduzione, una disagevole condizione che inibisce qualsivoglia forma di rilassatezza, che ti strabuzza gli occhi incapaci di fissarsi oltre sull’originale senza ancora avere a fuoco quel qualcosa di arrivo, in arrivo. È un po’ il destino delle condizioni intermedie, l’essere fatte di materia infinita e finita in una mescola strana. Conosco quei mille ripensamenti, le infinite prove di voce, la sottile ansia che accorcia il respiro quando vedi il libro stampato, stai per aprirlo e sai che non c’è più nulla da fare. L’inchiostro è fissato oltre i tuoi mille, ulteriori, possibili pentimenti e indecisioni. Perché in fondo la traduzione è anche un crogiolarsi di indecisioni, un rimandare la compiutezza, un non volere mai esaurire le possibilità. Mi piace e la sento nelle parole della Papetti quell’ansia che spezza il respiro e con quello l’ultima frase di questa citazione. Impervie e imperative, in cui non sai cosa scelga cosa, è la mente di un traduttore che ha già sciolto la propria creatività al fuoco bianco della lucidità, sta per sbozzare il diamante del linguaggio, è pronto a raccoglierne anche la più piccola particella o granello di polvere; può essere preziosa, perché nulla va perso in traduzione. La Papetti è ormai uno strano mostro bifronte, un po’ Viola un po’ Hopkins in quel doppio miraggio, in quella s che sibila tra senso e fissato.

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