Hardy via Paulin

L’Hardy raccontato nel primo capitolo del volume di Tom Paulin – Thomas Hardy – The poetry of Perception, resta lì, sitting on a fence, tra l’empirismo che gli dice che tutto sta nella sua testa, che ogni atto di percezione non è necessariamente che un registrare passivo della mente, un telo bianco che la realtà riempie, calpestandolo, di impronte e una posizione idealista che, fede alla mano, rende quell’atto un movimento innescato dall’alto, un momento di visione capace di scardinare tempo e spazio e ritrovare in quanto osserva una quiddity. L’arte impressionista che centra tutta la propria forza sull’impressione, sganciandola da ogni possibile riferimento razionale, la selezione che inevitabilmente quell’impressione produce mettendo in rilievo qualcosa a scapito di altro, illuminando solo ciò che conta, in quel momento, per me. Perché la ricerca è qui, sì, davvero decisiva, per Hardy poeta. Si tratta di rianimare il mondo attraverso un atto percettivo decisivo, che come lo scagioni da questa sua innaturale indifferenza, un momento di visione che cercherà tutta la vita, una via d’uscita da una mente che, per dirla con Milton - is its own place and of itself can make a Heaven of Hell, a Hell of Heaven. Come scrisse in uno dei suoi diari, avrebbe dato dieci anni della sua vita per una prova intangibile di immortalità. Coleridge, ma anche lo stesso Wordsworth, si affidano a un’intuizione che proietta oltre ma rischiano di portare nel mondo solo se stessi, uno specchio di se stessi. La mia impressione è che si tratti di una questione decisiva per la poesia e per la scrittura in generale. Da una parte può stare l’osservazione anche dettagliata, precisa sino allo sfinimento, tagliente come una lastra di ghiaccio, ma morta, irrimediabilmente morta, immota. Il risultato è una poesia anche esteticamente interessante ma fondamentalmente inutile. Dall’altra, difetto evidente in tanta produzione giovanile, è la pathetic fallacy di cui parla Ruskin, investire cioè le cose di qualcosa che ci appartiene e scambiare questo per una qualità inerente la realtà osservata. Hardy sembra intrappolato a mezza strada e, suggerisce Paulin, riesce a fare di questa media res, un atto percettivo vincente capace di trovare (e non di mettere) nelle cose che osserva una qualità tutta umana. Lo fa attraverso il dominio dell’occhio, attraverso un atto percettivo raffinatissimo e grezzo allo stesso tempo, senza tuttavia evitare (ma è tipico dell’ambiguo strumento che impiega, le parole) scivolate ora verso una parte ora verso l’altra.

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