James Lee

Ci sono banalità e banalità. Se un libro funziona, se un libro sposta anche solo un millimetro di me da qui a lì, lo capisco da come guardo il mondo, dopo. Se il livello di lucidità, se la messa a fuoco sugli angoli contundenti del reale ne escono in quale modo ravvivate, come ripulite da una di quelle salviette pre-inumidite che si utilizzano per detergere gli occhiali, tutto questo significa che il libro funziona. Che la lingua, lo stile, l’atmosfera, le immagini, i personaggi sono quelli giusti e sanno parlare una lingua che una parte di te, non necessariamente il cervello, comprende e digerisce. Mi è capitata questa cosa finendo, in biblioteca – invece di tradurre, ma ora lo farò – Neon Rain di James Lee Burke. Avevo letto “La Ballata di Jolie Blon” in traduzione (davvero buona traduzione) mentre ho affrontato questo volume in inglese/americano. È il primo della serie che vede come protagonista Dave Robicheaux, il poliziotto di New Orleans sempre in bilico tra bottiglia, etica, quel complesso atto di disambiguazione tra bene e male che costringe a immerdarsi nelle cose sino al collo. Detta così, sembra che gli stereotipi del genere ci siano tutti; non sono un esperto ma conosco i miei Marlowe e Spade a sufficienza per vedere i lontani progenitori della scrittura di Burke. Ma qui mi pare ci sia anche dell’altro, la descrizione dei paesaggi, per esempio. La Lousiana, New Orleans, l’umido bayou che fa da sfondo alle disavventure di Streak Robicheaux è parte integrante della narrazione. L’umidità ti si appiccica addosso dalle pagine del libro come l’odore di gamberi fritti e quelli per me del tutto immaginari (perché non ho idea di cosa siano) di gumbo, cush-cush o poor boy sandwich. Se c’è un difetto, è nello schematismo con cui quasi ogni capitolo ripete la sequenza paesaggio/azione/paesaggio e nel rispecchiamento paesaggio/animo di Robicheaux; nella maggiore parte dei casi, però, la fusione è perfetta, non si notano irregolarità sulla superficie, la saldatura scompare tra le mani di un’abile artigiano. Ha ragione il mio amico W., che di queste cose se ne intende un milione di volte più di me, il progenitore di molta questa letteratura ha un nome e un cognome: il nome è Hemingway e il cognome è Fiesta, con tutta probabilità il suo libro migliore. I dialoghi serrati e senza fronzoli, l’elevatissimo tasso alcolico sono la cifra determinante di quel libro. Così come lo sono una certa disperazione universale, il senso ineludibile e shakespeariano di un’impossibilità di fuga dalle miserie e dalle tragedie di questo mondo. Quando Polonio saluta il figlio Laerte in partenza per la Francia, gli raccomanda di essere fedele a se stesso (McKendrick ci ha scritto una bella poesia sopra); ecco la fedeltà a se stesso di Robicheaux è quella connaturata fatalità di fare bene e finire irrimediabilmente male, conci e pesti, di fare il vuoto attorno a sé, di portare un dolore sordo e fuori dal tempo in una bolla d’aria sempre all’altezza della lente con cui si tenta di carpire i dettagli dell’universo.

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