Traduzione vs. Lacan II

Come si esce dunque da questa catena di identificazioni cui è soggetto l’Io? Come fa il soggetto a arrestare questa continua ricerca di conferme? Per Lacan è a questo punto che interviene l’Edipo. Nella fase edipica al soggetto viene data l’opportunità di sfuggire a questa dialettica di stampo paranoico. Il bambino scorge sì nel padre un rivale per il possesso del corpo materno che gli scatena nuovamente l’angoscia del corpo in frammenti (al posto della fusione indistinta nell’Uno della madre) – l’angoscia che sperimenta il traduttore quando confronta ciò che resta e ciò verso cui ambisce - in questo pienamente minacciato dall’istanza culturale del medium linguistico - ma allo stesso tempo nel momento in cui si identifica con il padre non si identifica più con un’immagine speculare del proprio Io (MOI) ma si identifica con un’intera cultura, la stessa, in termini edipici che gli impone il divieto dell’incesto. Identificandosi con il padre, inteso come il custode dei tabù e dei costumi di un’intera società, il soggetto ritrova un punto di riferimento stabile, un’immagine idealizzata del proprio io che gli viene rinviata e per certi versi “prescritta” strutturando ogni rapporto tra il soggetto e i propri simili - insomma, per il traduttore non c’è nulla da fare, deve smettere di contemplarsi allo specchio e portare “fuori” la sua traduzione del testo poetico, metterla a confronto con “i tabù e i costumi di un’intera società” / leggi: come si traduce nel momento storico in cui lui è al lavoro, quale sono le istanze culturali che spingono il suo lavoro in una direzione piuttosto che un’altra e, una volta ancora, con un testo originale di partenza ora pieno e denso e non più solo rispecchiamento, riflesso speculare dello “je”, un testo con precise richieste e “prescrizioni”. Continua Tarizzo: “è a questo punto che l’altro diventa Altro”. C’è un problema: il Super-Io (perché di questo si tratta in termini freudiani) si presenta in una forma Ideale dell’Io, venendo dunque a mancare qualsiasi forma di adesione immediata del soggetto all’immagine speculare dell’io, bensì l’IO (MOI) appare adesso al soggetto (JE) nella forma di un’Ideale cui può solo approssimarsi – la traduzione in rapporto al testo inteso come Altro con la A maisucola – via via che ci si allontana dal corpo materno il padre intima al bambino di rinunciare al corpo della madre e allo stesso tempo ne rivendica il possesso. In sostanza gli dice “Tu devi essere come me ma non puoi essere come me” mettendo nuovamente il soggetto, seppure in una condizione più stabile, pur sempre in una condizione che resta inevitabilmente “sospesa” al processo di identificazione. Edipo, infatti, non è che una costruzione culturale, una favola sociale che narra indirettamente/simbolicamente lo stallo dell’identificazione umana – siamo nel campo del mito, lontani dal movente a pulsione sessuale dell’Edipo inteso in senso freudiano.
Qui Lacan è pronto al passo successivo. Siamo al saggio sui Complessi Familiari. L’identificazione edipica ha dunque permesso al soggetto di uscire da un’identificazione immaginaria per passare a una simbolica e a rendersi conto della propria condizione di soggetto che dovrà sempre identificarsi. E dunque a) Edipo consentiva all’uomo di prendere atto a livello simbolico del proprio essere immaginario b) ora Edipo deve consentire all’uomo di prendere atto a livello simbolico del proprio essere simbolico; da una dialettica a due termini Immaginario/simbolico se ne sostituisce una intra-simbolica. La soggettività diviene allora senso: “soggetto non ha un’identità propria, un significato stabile ma si risolve integralmente in una domanda di riconoscimento” – “Solo prendendo atto della propria altalena simbolica tra un + di senso e un – di senso l’uomo può prendere atto della sua altalena immaginaria tra un + di identità e un – di identità, tra un + di IO e un – di IO. La domanda di riconoscimento che fa apparire il soggetto lo fa di nuovo sparire in quella stessa domanda. Perché non c’è risposta, non c’è significato che saturi quel buco (beance) che la domanda scava. Il soggetto oscilla tra essere/non-essere, appare sparendo nella propria parola, nella propria domanda di riconoscimento. Lacan parla di “vacillamento radicale del soggetto” – qui si potrebbe parlare di “vacillamento radicale del processo traduttivo” o di “vacillamento radicale del testo tradotto”. Non si può guarire, la traduzione non può guarire dalla propria natura ambivalente di traduzione, di testo che appare e scompare. Anzi, è proprio quando pensiamo di sanare la faglia (“spaltung” freudiana) che cadiamo nella malattia. Quando la nostra parola cessa di essere domanda di riconoscimento, si svuota di senso e diventa chiacchiera (quando smettiamo di interrogarci sul testo tradotto cadiamo nella malattia). È tempo allora che il sintomo si faccia carico di quel “senso”, del “senso” della nostra parola intesa come domanda di riconoscimento.
Il soggetto è il “senso della parola”, un senso che corre e scivola da un signficante all’altro senza mai risolversi in un significato. Avanza sempre un lembo di senso e quel lembo di senso è il soggetto. Per definire la continua pulsazione del soggetto tra essere e non-essere Lacan utilizza sovente negli anni ’50 e ’60 la locuzione “mancanza a essere”. Non c’è un + = soggetto inteso come coscienza, libertà di cui esiste un segno – così come non c’è più un oggetto inteso come cosa, fatto in cui troviamo un segno +, bensì il meno e il più si trovano entrambi dalla parte del soggetto.

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