Sbarbaro

In questa logoro oscar Mondadori datato 1979 dal titolo Camillo Sbarbaro – Poesia e Prosa – a cura di Vanni Scheiwiller con prefazione di Eugenio Montale – capitatami per caso tra le mani questo pomeriggio ritrovo il poeta dei miei vent’anni – l’amatissimo Sbarbaro delle piccole cose, poeta timoroso persino di fare muovere l’acqua in fondo a un pozzo. E due citazioni, la prima nell’antologia critica che precede il testo, di Ardengo Soffici – marzo 1920: “Anche questa è una di quelle poesie fuor della storia, fuor della tradizione, che a capirle basta il cuore e l’aver vissuto. Non ci sono ragioni letterarie che le spieghino e nessuna ‘confessione di un figlio del secolo’ me la può dedurre… ma io penso, semmai, che ci sono delle cause le quali non mutano, e che ci sono atteggiamenti dell’anima umana sui quali la storia non può. Sono colpito in questi frammenti dello Sbarbaro dalla secchezza, dalla immediata personalità, dalla scarna semplicità del suo dire: mi par d’essere innanzi a una di quelle poesie su cui i letterati non sanno né possono dissertare a lungo, ma di cui si ricordano gli uomini nella vita loro per millenni.”
E il finale dell’affettuosissimo ricordo della sorella Clelia – lo chiama Camillo per tutte le pagine di una simil-biografia Camillo Sbarbaro nei ricordi della sorella che precede l’antologia – “Ragazzo inquieto e irrequieto fin dalla prima infanzia (enfant encombrant l’aveva definito uno zio francese quando egli aveva solo cinque anni), era sempre diverso e ogni volta vero; imprevedibili le sue reazioni. Così rimase tutta la vita; ma fin dall’adolescenza parve gradualmente adattarsi in superficie e salti d’umore furono in parte attenuati dall’interesse per alcune materie di studio, da una divorante passione per la lettura e, negli anni del ginnasio, da un primo sgorgo di poesia.”

Da Pianissimo

*
Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo
come in sonno tra gli uomini mi muovo.
Di chi mi urta col braccio non m’accorgo,
e se ogni cosa guardo acutamente
quasi sempre non vedo ciò che guardo.
Stizza mi prende contro chi mi toglie
a me stesso. Ogni voce m’importuna.
Amo solo la voce delle cose.
M’irrita tutto ciò che è necessario
e consueto, tutto ciò che è vita,
com’irrita il fuscello la lumaca
e com’essa in me stesso mi ritiro.

Ché la vita che basta agli altri uomini
Non basterebbe a me.
E veramente
Se un altro mondo non avessi mio,
nel quale dalla vita rifugiarmi,
se oltre le miserie e le tristezze
e le necessità e le consuetudini
a me stesso non rimanessi io stesso,
oh come non esistere vorrei!
Ma un’impressione strana m’accompagna
sempre in ogni mio passo e mi conforta:
mi pare di passare come per caso
da questo mondo…

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