W.C. Williams

Non ce la fa a stare fuori la realtà dalla poesia di William Carlos Williams. Preme sulla pagine, piega la sintassi, fa breccia nella prosodia sino a quando, nel Paterson, eccola prendere stabile possesso del poema sotto forma di relazione sullo scavo di un pozzo artesiano, annuncio pubblicitario e cartella clinica di un paziente. Sembrano certi merzbild di Kurt Schwitters, la completa ridefinizione dei confini tra poesia e prosa ma anche tra realtà e opera d’arte. Williams, il poeta delle cose e non delle idee (celebre il suo motto no ideas but in things) scrive un libro che è davvero un libro-mondo dove il mondo, in questo caso un’intera città diventa organismo vivente e pensante. Dove il tempo si cristallizza in un presente eterno che sa di mito.
E davvero così tanto dipende da quella carriola rossa (da una sua celebre lirica:

so much depends
upon

a red wheel
barrow

glazed with rain
water

beside the white
chickens

(tanto dipende/da/una carriola rossa/smaltata d’acqua/piovana/accanto alle galline/bianche). E se davvero tanto dipende da quella red wheel barrow è perché rappresenta la resistenza del particolare sull’universale. La salvaguardia sacrale della vita singola, del gesto unico individuato tra una selva di movimenti che reclamano il tutto come giustificazione alla propria mancanza di discrimine. C’è una lama di rasoio su cui occorre appoggiare il piede anche a costo di sanguinare. E pure conta, oltre a quella carriola rossa, il racconto che ne fa William Carlos Williams, la sua traduzione estetica perché quel particolare non deve finire dentro a una casella, liquido a conformarsi con il contenitore che l’attende. Quell’oggetto è un ente nella sua irriducibile soggettività/oggettività. Non finisce dentro a dispositivo alcuno. Resta, per dirla in termini kantiani, motore di un giudizio riflettente, parte dal basso e sale verso l’altro a cercarsi un consenso, a cercarsi una comunione e mai dunque vorrebbe percorrere il cammino inverso. Farsi giudizio determinante.

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