Vecchie introduzioni - i Dubliners di Joyce tradotti per Guaraldi

Ritratto dell'artista da giovane.

È la fine di Novembre del 1905 quando sulla scrivania dell'editore inglese Grant Richards arriva un plico contenente dodici racconti inviati da un giovane scrittore irlandese residente a Trieste di nome James Joyce. Ha inizio in questo modo la travagliata storia della pubblicazione di Gente di Dublino. Ci sarebbero voluti altri nove anni, un fitto scambio di lettere e opinioni, prima che l'editore inglese si convincesse a pubblicare il volume così com'era (con l'aggiunta, anzi, di altri tre racconti Una piccola nuvola, I due galanti e I morti scritti nel 1906 i primi due, nel 1907 il terzo), senza censure o revisioni. Dietro le vicissitudini della pubblicazione di quest'opera é possibile leggere, in controluce, le analoghe difficoltà di un travaglio personale ed artistico.
Joyce era giunto a Trieste nel Marzo del 1905 dopo un periodo trascorso a Zurigo prima e a Pola poi. Vi viveva con la moglie Nora Barnacle e il primo figlio Giorgio, nato nel Luglio di quello stesso anno. Insegnante di inglese presso la Berlitz School, Joyce é un giovane povero e colto, convinto di possedere talento letterario sufficiente per stupire il mondo. Ne sono conferma alcune delle lettere scritte all'editore inglese che lo pressava affinché modificasse quelle parti di Gente di Dublino che venivano ritenute "scandalose" e "offensive" per la dignità del popolo irlandese. Scrive Joyce nel Maggio del 1906: "È stata mia intenzione di scrivere un capitolo della storia morale del mio paese, e ho scelto Dublino come scena perché quella città mi sembrava essere il centro della paralisi... L'ho scritto per la maggior parte con uno stile di scrupolosa mediocrità e con la convinzione che chi osa alterare nella presentazione, o peggio ancora, deformare quel che ha visto e sentito, sia un temerario." E in un passo di una lettera di qualche tempo dopo: "Non é colpa mia se l'odore di cenere, d'erbe macerate e d'immondizie aleggia sulle mie novelle. Io credo seriamente che Lei ritarderà il corso della civiltà in Irlanda, se impedirà agli irlandesi di contemplare per bene se stessi nel mio specchio tirato a lucido." Non male per un giovane scrittore di soli ventotto anni essere convinto di avere scritto un testo capace di modificare il corso della civiltà in Irlanda! Questo per illustrare il carattere e per chiarire quale era il progetto che sostenne la composizione di Gente di Dublino. Ma cosa ci faceva Joyce a Trieste nel 1905? Vi era arrivato dopo diverse traversie e, soprattutto, sulla spinta della convinzione, avvertita già in età precoce, che l'unica possibilità di salvarsi stava nell'andarsene da Dublino. Nel 1902, infatti, appena terminati gli studi al Belvedere College (la carriera scolastica dello scrittore si era svolta quasi tutta sotto l'egida dei gesuiti), Joyce aveva tentato una prima fuga verso Parigi per studiarvi medicina; la faccenda però si era risolta in una bolla di sapone e, a causa delle endemiche difficoltà economiche, si era visto costretto a rientrare in Irlanda. Ma la convinzione non si era di certo affievolita e di lì a qualche tempo Joyce avrebbe abbandonato la propria terra natale in maniera definitiva. Abbandonava un mondo gretto, "quella emiplegia o paralisi che molti considerano una città", le claustrofobiche strettoie di una religiosità bigotta dove l'unica forma di evasione sembrava aderire a un patetico nazionalismo di campanile ben illustrato dal personaggio della signorina Ivors nel racconto I morti.
Gli anni della formazione sono attraversati da una serie di contraddizioni che accompagneranno lo scrittore lungo tutto l'arco della sua produzione letteraria. Tra il 1900 e il 1902, infatti, Joyce pubblica quattro testi fondamentali per la comprensione di quel conflitto tra realismo e simbolismo, tra una concezione dell'arte come mimesi e quella esoterica del gioco letterario a carte coperte che trova in Gente di Dublino e nel Finnegans Wake (l'ultima e più complessa opera dello scrittore irlandese, edita nel 1939 a due anni dalla morte) esito antitetico ma, in fondo, naturale. I quattro testi in questione sono Drama and Life (Dramma e vita), conferenza del 1900, il saggio Ibsen's New Drama (Il nuovo dramma di Ibsen), il pamphlet The Day of the Rabblement (Il giorno della marmaglia) e il testo dedicato al poeta irlandese James Clarence Mangan. Siamo al punto di convergenza "di tre atteggiamenti diversissimi, la preoccupazione realistica, la concezione romantico-decadente della parola poetica e la forma mentis scolastica." Oppure come bene dice Praz, svelando altre fonti di influenza del giovane Joyce: "la sua teoria estetica é una mescolanza stimolante di naturalismo flaubertiano e di neotomismo." Tra Ibsen e Flaubert da una parte, Pater, Symons, i simbolisti francesi dall'altra, la religiosità e la filosofia da un'altra ancora, emerge il ritratto dell'artista da giovane, combattuto tra un bisogno (per formazione) di ordine, di rigore, di impersonalità e una necessità (per vocazione) di dire il disordine, il caos e il linguaggio che li esprime. Seguiamo ancora Eco nel sottolineare: "il conflitto dell'ordine tradizionale e della nuova visione del mondo, il conflitto dell'artista che tenta di dare forma al caos in cui si muove e si ritrova sempre tra le mani gli strumenti dell'Ordine vecchio, perché non é riuscito ancora a rimpiazzarli." Tra questi due estremi stanno dunque, come si é detto, Gente di Dublino e Finnegans Wake, ma non solo; ci stanno Chamber Music (Musica da camera) volume di versi edito nel 1907, The Portrait of the Artist as a Yong Man (pubblicato dal 1914 a puntate sulla rivista inglese "The Egoist"), il dramma Exiles (Gli Esigliati) del 1930 e infine, del 1922 il capolavoro dello scrittore irlandese Ulysses (Ulisse) edito nel 1922. E, si potrebbe dire, che in questa irrequietezza intellettuale trova una propria spiegazione il vagabondaggio di una vita tra Dublino, Trieste, Zurigo e Parigi.
Colui che compone i Dubliners é ancora un giovane scrittore alla ricerca di un'identità, chi ha ancora bisogno di descrivere per tentare di capire, chi non si sente ancora preparato per dire "io" qualunque cosa quel pronome potesse significare (verrà con Ulisse e avrà la forma del flusso di coscienza). Le radici, il senso del luogo sono ancora troppo forti; basti ricordare l'aneddoto che vuole che Joyce si facesse mandare i biglietti del tram di Dublino per "sentire" profumo di "casa". Ma basta anche leggere le accurate descrizioni delle vie cittadine, il ricorrere continuo e quasi ossessivo, attraverso tutti i racconti, dei nomi delle strade, delle piazze, dei pub della capitale d'Irlanda. Qualcuno ha scritto che qualora la città andasse distrutta sarebbe comunque possibile ricostruirla attraverso le minuziose descrizioni contenute nelle opere di Joyce. Scrive in una lettera al fratello Stanislaus: "Quando pensi che Dublino é stata una capitale per migliaia di anni, che é la seconda città dell'Impero britannico, che é grande quasi tre volte Venezia, pare strano che nessun artista l'abbia presentata al mondo." Gente di Dublino é la presentazione di una città al mondo attraverso quattro momenti della vita dell'uomo: l'infanzia (i primi tre racconti), l'adolescenza (dal quarto al settimo), la maturità (dall'ottavo all'undicesimo) e la vita pubblica (dodicesimo, tredicesimo e quattordicesimo); l'ultimo racconto, I morti, venne scritto più tardi e incornicia il volume uscendo e al contempo siglando la struttura di cui sopra.
A questo impianto di base, spiegato dallo stesso Joyce nella lettera al fratello citata in precedenza, risponde un'accorta costruzione "cinematografica" di ciascun racconto. La logica é ben riassunta da Robert Scholes: "la grammatica di queste storie tende verso un perdurare delle situazioni spiacevoli, e semmai verso un mutamento di male in peggio." Il persistere di una situazione di stallo descritta all'inizio di ciascun racconto trova, mediante un abile montaggio, un momento culminante, un climax che condensa e riassume il senso profondo di ogni testo (per il concetto di epifania e di nucleo si rimanda il lettore alla terza parte di questa introduzione).
Non rimane che sottolineare il carattere "atonale" e dunque irrisolto di ciascuno dei movimenti che compongono la trama musicale di Gente di Dublino. Una trama musicale con una tonalità d'impianto "minore" che però non pare trovare una propria risoluzione, uno scioglimento chiarificatore. È quella che Praz chiama, nel volume citato, "la nota sospesa"; una sospensione che spesso non prelude a nulla, ma che lascia il lettore in una condizione di stallo, di paralisi; condizione che lo accomuna, dunque, seppure per il breve spazio della lettura, a quella degli abitanti della Dublino joyciana.


Padri e figli.

Joyce o Yeats. Yeats o Joyce. Sembra che le coordinate della tradizione letteraria irlandese non conoscano altre vie di fuga. A chi, nato in Irlanda e deciso a confrontarsi con la parola letteraria, sia essa prosa o poesia, capiterà prima o poi di imbattersi in questi due grandi padri. I padri talvolta sono ingombranti. Mettono ansia, spingono alla rinuncia, scatenano quel gioco/scontro di resistenze, debolezze, interpretazioni e misletture (per usare un termine tanto in voga nella critica letteraria degli anni ottanta) che Harold Bloom (uno dei "padri" della decostruzione, paradigma dominante della critica letteraria almeno sino a qualche anno fa) ebbe a definire come L'Angoscia dell'influenza. Può essere interessante allora partire di qui; trovare un luogo letterario recente nel quale assistere all'incontro tra il "grande" padre James Joyce e un degno figlio della tradizione: Seamus Heaney, forse il maggiore tra i poeti irlandesi contemporanei di lingua inglese.
Corre l'anno 1984 (settant'anni dopo la prima edizione dei Dubliners) e Seamus Heaney pubblica Station Island, volume di versi tra i più acclamati dalla critica internazionale. Nella seconda parte di questo libro si trova il lungo poema diviso in dodici sezioni che dà il titolo al volume. Seamus Heaney, nel mezzo del cammino della propria vita letteraria, intraprende un viaggio di pellegrinaggio nella celebre isola sita nella contea del Donegal dove la leggenda racconta che San Patrizio sostò per alcuni giorni in penitenza. Si tratta di un viaggio immaginario e reale allo stesso tempo durante il quale il poeta incontra personaggi del proprio passato ma anche della storia pubblica e letteraria irlandese. Nell'ultimo "canto" (lo si definisce in questo modo perché Dante é il costante punto di riferimento del viaggio di Heaney) il poeta irlandese incontra James Joyce. Siamo al confronto con il padre. Eppure non ne nasce un conflitto. Questi con voce "cunning, narcotic, mimic, definite/as a steel's nib downstroke, quick and clean" (astuta, narcotica, mimetica, precisa/come il tocco di un pennino d'acciaio, veloce e pulita ) prende a parlare. Sono parole intese come ammonimento al poeta ma sono anche un ottimo viatico a tutta l'opera di Joyce. In pochi versi sta la parabola letteraria e personale dello scrittore irlandese: l'esilio volontario come la condizione di chi tenta di essere "senza radici" per trovare il giusto distacco per parlare della propria terra; il conflitto che ne consegue perché le radici sono profondissime, innegabili, amate/odiate; la ricerca di un equilibrio impossibile tra il "buttarsi" di "un universo aperto, in continua espansione e proliferazione quale si dispiega nel Finnegans Wake" e lasciare che altri si coprano col saio e le ceneri "dell'universo il quale deve pur avere un modulo d'ordine, una regola di lettura, un'equazione che lo definisca: infine una forma."
La scena si configura in questi termini: Heaney, il poeta che ha raccolto la grande tradizione letteraria irlandese, nato cattolico nell'Irlanda del Nord, figlio della strisciante guerra civile che sta dilaniando quel paese e che ha deciso di trasferirsi a Dublino, esule volontario anche lui dunque, e come tale carico del conflitto di chi si sente di avere abbandonato la lotta per ritirarsi a coltivare le "belle lettere", trova di fronte in Joyce un alter ego. Un alter ego che ha vissuto sulla propria pelle un mondo di strettoie intellettuali, di difficoltà economiche, ma che sente in sé l'orgoglio, stizzito orgoglio ("il suo incedere eretto" alla fine del canto) di chi può dare un consiglio perché dalla stessa strada é passato:

... "Your obligation
is not discharged by any common rite.
What you must do must be done on your own

so get back in harness. The main thing is to write
for the joy of it. Cultivate a work-lust
that imagines its haven like your hands at night

dreaming the sun in the sunspot of a breast.
You are fasted now, light-headed, dangerous.
Take off from here. And don't be so earnest,

let others wear the sackcloth and the ashes.
Let go, let fly, forget.
You've listened long enough. Now strike your note."

("Il tuo dovere/non viene esonerato da nessun rito comune./Quello che devi fare da te solo dev'essere fatto/quindi torna alla tua briglia. Essenziale é scrivere/per la gioia di farlo. Coltiva la brama del lavoro/che immagina il suo porto come le tue mani di notte/ sognano il sole nella macchia solare di un seno./Ora sei digiuno, delirante, pericoloso./Parti da qui. E non essere così zelante,/lascia che altri si coprano con il saio e le ceneri./Lasciati andare, buttati, dimentica./ Hai ascoltato abbastanza. Ora suona la tua nota.")

Non c'é alcun rito comune che permetta di salvarsi, e il lettore ne avrà la sensazione netta dopo la lettura del racconto La Grazia. Inutile allo stesso modo é lo zelo del piccolo Chandler in Una piccola nuvola, così come paralizzante appare l'incapacità di dimenticare, lasciarsi andare di Gabriel Conroy, protagonista de I Morti, il racconto che chiude Gente di Dublino. Partire, andare, buttarsi, suonare la propria nota individuale ecco tutto ciò che gli abitanti della Dublino joyciana non riescono proprio a fare.


Per una ipotesi di traduzione.

"La critica letteraria non cerca tanto di fornire le istruzioni per scrivere 'la' poesia o 'il' romanzo, quanto di comprendere le strutture, interne ed esterne, che operano all'interno e attorno a un'opera d'arte, allo stesso modo lo scopo di una teoria della traduzione é comprendere i processi sottostanti l'atto della traduzione e non, come di solito si fraintende, di fornire un insieme di regole per effettuare la traduzione perfetta: non si può categorizzare la dimensione pragmatica della traduzione, così come non si può definire e prescrivere l'ispirazione di un testo." Appare dunque chiaro che quella del traduttore é una difficoltosa procedura di navigazione a vista. Sprovvisto di strumenti di bordo molto precisi, fidando in quell'unica e frammentaria carta navale che é la conoscenza della lingua (di partenza e di arrivo) egli si imbarca in un'avventura solitaria, malcerta. La traduzione appare allora come una di quelle discipline nelle quali la teoria, quella che nella citazione poco sopra viene definita come "categorizzare la dimensione pragmatica", lambisce sino a confonderle le prime propaggini della pratica. In certe situazioni di difficoltà non resta che fare affidamento all'intuizione, talvolta all'improvvisazione. Quello che si tenta di definire in questo paragrafo non è dunque un costrutto teorico, un "modello" di traduzione possibile, quanto un'ipotesi di lavoro nata con la pratica, cresciuta tra lo scartabellare delle pagine di un dizionario.
Risulta abbastanza evidente, anche a una lettura superficiale, che tutti i racconti che compongono la raccolta di Gente di Dublino, ruotano e sono costruiti attorno a un nucleo fondamentale. Tale nucleo può assumere forme diverse, un'immagine (lo scintillio della moneta nel palmo della mano di uno dei protagonisti de I due galanti), una cadenza ritmica (la neve dell'ultima pagine de I morti), un'azione che si fissa in un verbo (rompere il calice da parte del prete nel racconto di apertura Le sorelle) e così via. Il nucleo condensa in sé il senso profondo del racconto, sembra fungere da "big-bang" generatore, causa scatenante della scrittura. È come se Joyce si fosse trovato tra le mani una specie di grumo denso e avesse sentito la necessità di doverlo stemperare, diluire, farlo risalire alla superficie della manifestazione linguistica attraverso una serie di processi di manipolazione. Se il compito del traduttore é quello di tenere in rispettosa considerazione le strutture di superficie del testo (la forma nelle sue attualizzazioni, le strutture grammaticali, il linguaggio dunque) altrettanto importante appare l'esigenza di farsi guidare dal senso profondo del testo. Senso profondo del testo che talvolta può parlare un linguaggio dimenticato e di difficile comprensione, ma che é fondamentale cercare di ascoltare se si intende tentare una sorta di "fusione degli orizzonti" tra chi scrive e chi traduce. Tra chi scrive e chi tenta di trasporre il senso e non solo il significato da una lingua all'altra.
È a questo punto quindi che quello che appare come una riflessione teorica di confine tra la critica letteraria e la teoria della traduzione diventa una vera e propria ipotesi di lavoro. Il nucleo, infatti, scoperto e messo in luce si trasforma in un centro di gravitazione attorno al quale fare ruotare le scelte lessicali, sintattiche, ritmiche e di intonazione del testo che si intende tradurre. Sarà dunque questa "teoria del nucleo" a giustificare certe scelte di traduzione invece di altre, non una mera questione di cifra stilistica o coerenza formale.
Si è giunti a questo punto attraverso un percorso critico che si ritiene utile spiegare al lettore (così farebbe il detective in un libro giallo): come si é andata costruendo un'indagine a partire da una serie di tracce lasciate per strada dai critici letterari e dallo stesso Joyce. La riflessione di cui sopra conosce infatti un doppio ordine di indizi teorici; da una parte alcune riflessioni condotte dalla critica letteraria sui meccanismi di generazione dell'opera letteraria, dall'altra le pagine scritte da Joyce a proposito del concetto di epifania. A questa breve descrizione seguiranno alcuni esempi di come la teoria si mescola alla pratica nell'atto della traduzione, esempi che contribuiranno a chiarire e a dotare di fondamento quanto affermato sino a questo punto.
Sono due i nomi che più si sono avvicinati a una possibile definizione teorica di quel concetto di nucleo cui si faceva riferimento poco sopra: Greimas e Riffaterre. Il primo ha condotto una serie di studi che dalla semantica strutturale lo hanno condotto a cercare di chiarire le logiche profonde che agiscono al di sotto del testo così come si presenta agli occhi del lettore; il secondo, trattando di poesia, ha fornito la critica di strumenti essenziali a chiunque intenda procedere allo scandaglio dei fondali della scrittura. Ci é parso che le indicazioni di Greimas relativamente alla "ricostruzione ipotetica del percorso che partendo da un livello profondo, da una base logico-semantica, si converte in piani più superficiali fino all'incontro con i sistemi dell'espressione" potessero essere una giustificazione teorica delle operazioni che si é tentato di portare avanti. Il nucleo viene descritto da Greimas come una "base logico-semantica" che dal profondo muove verso la superficie per farsi parola, testo, sistema dell'espressione. Ancora più vicino va Riffaterre allorché definisce con il termine di "matrice" o "ipogramma" quella nevrosi, ossessione che spinge il poeta a comporre versi. La poesia diventa una modulazione, una variazione su un unico tema che talvolta può essere alla base di un solo testo, altre volte può dominare la scena per un intero volume di poesia, altre ancora diventare il nucleo generatore di tutta l'opera di un poeta. Base logico-semantica e matrice: ecco altre due definizioni che contribuiscono a chiarire quel concetto di nucleo di cui sopra. Il grumo originario che salendo alla superficie incontra sulla sua strada il linguaggio e la forma letteraria.
Veniamo a Joyce e alla sua personale definizione di nucleo, al concetto di epifania. Non é questo il luogo per addentrarsi in una difficoltosa disamina delle influenze che dalla filosofia scolastica sino a Pater e Symons concorsero alla definizione del termine in Joyce ; quello che importa chiarire invece, è il valore che l'esperienza epifanica ha per Joyce. Scrive in una pagina dello Stephen Hero (Le gesta di Stephen) - testo composto a Trieste nel 1905 e che poi verrà rielaborato sino alla versione definitiva che va sotto il titolo di Portrait of the Artist as a Young Man (Dedalus nella versione italiana): "Per epifania Stephen intendeva un'improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso o in un gesto o in un giro di pensieri, degni di essere ricordati. Stimava cosa degna per un uomo di lettere registrare queste epifanie con estrema cura... " Joyce aveva passato molto tempo a registrare questi piccoli quadretti apparentemente insignificanti ma capaci di aprire uno spazio vasto, lo spazio vasto della manifestazione spirituale, del contatto con il nucleo. In una pagina del Dedalus Joyce paragonò quell'istante misterioso dell'esperienza estetica "a quella condizione cardiaca che il fisiologo italiano Luigi Galvani, con una frase ha chiamato l'incanto del cuore." Ecco dunque il senso della moneta mostrata ne I due galanti, l'argilla toccata dalla protagonista nel racconto omonimo, la rottura del calice ne Le sorelle, il ritmo musicale che incanta il ricordo di Gretta e che trova nella neve che cade il proprio ideale controcanto ne I morti. L'epifania che accade nel momento nel quale l'occhio dell'artista cade su un semplice e banale fatto "diventa un momento operativo dell'arte che fonda e istituisce non un modo di esperire ma un modo di formare la vita." Per uno strano e per molti versi inspiegabile movimento delle cose, accade che l'occhio dell'artista coglie il leggero slittamento che permette alla realtà di svelare, di tradire verrebbe da dire con Montale, l'ultimo segreto. Il senso sta non tanto nel "disvelarsi della cosa nella sua essenza oggettiva, ma nel disvelarsi di ciò che la cosa vale in quel momento, per noi: ed é il valore conferito in quel momento alla cosa che fa veramente la cosa." Con quel senso di relativo dunque che forse rappresenta la cifra dell'universale. Ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano. Nucleo quindi, base della struttura, matrice generativa dell'opera letteraria, spinta allo scrivere, l'epifania rappresenta, seppure in un'accezione più vasta, la natura profonda dei racconti che vanno sotto il titolo di Gente di Dublino.
Da questa serie di considerazioni ha preso dunque l'avvio l'ipotesi di traduzione che si é inteso proporre in questo volume. Con le difficoltà di una traduzione "giovane", con la necessità di confrontarsi con quello che già esiste, ma allo stesso tempo con l'intenzione di fare un passo oltre (senza indicazioni di direzione).
Il momento epifanico del primo racconto accade nel momento nel quale il piccolo protagonista si reca per l'ultima visita all'amico prete morto: "Stava là disteso, solenne e massiccio, vestito come per una funzione, tra le mani, le sue grandi mani abbandonate, un calice." Ed é proprio con la rottura del calice che ha inizio il declino del vecchio prete, l'interruzione a causa di un banale infortunio di una vita fatta di regole, esili simmetrie assunte a ragione dell'esistenza. Quella piccola/enorme infrazione (ma il calice non conteneva le ostie - ci segnalano le altrettanto zelanti sorelle del prete) diventa la causa scatenante di una piccola/enorme tragedia. Il vecchio prete non c'é più con la testa, lo trovano a ridacchiare nel confessionale. Di lì a poco la morte. La morte é quel calice in frantumi, il relativo che si fa spazio tra le ragioni forti dell'assoluto. Se questo é il nucleo, se "rompere" rappresenta l'ipogramma, la matrice di partenza ecco allora che si è preferito scegliere, ove possibile, termini che appartenessero all'area semantica descritta da quel verbo: "Qualcosa si era rotto anche nella sua testa" (That affected his mind). Le maggiori traduzioni esistenti seguono altre strade: la versione di Antonio Brilli "Gli dette alla testa", quella di Franca Cangoni "Gli scombussolò la mente", oppure "Gli ha scombussolato la testa" di Emilio Tadini. Può sembrare un piccolo particolare ma trova un punto di equilibrio ideale nel finale nel quale Joyce utilizza un termine che si avvicina a quello precedente solo in parte: "So then, of course, when they saw that, that made them think that there was something gone wrong with him"(il corsivo é nostro). Ecco allora che la scelta lessicale é caduta sulla ripetizione dell'espressione usata in precedenza piuttosto che seguire una versione forse più letterale e "corretta" ma meno intrigante da un punto di vista interpretativo: "È stato allora, quando lo hanno visto in quelle condizioni, che hanno cominciato a pensare che si fosse rotto qualcosa dentro di lui." La versione di Brilli é la seguente: "Quando se ne accorsero, pensarono subito naturalmente che fosse partito di testa"; Tadini preferisce un più piano: "Così, naturalmente, quando l'hanno visto, hanno cominciato a pensare che doveva avere qualcosa che non andava"; infine la versione della Cangoni recita: "Naturalmente quando se ne accorsero pensarono subito che dovesse avergli dato di volta il cervello". Si tratta di spostamenti minimi, di lievi oscillazioni del significato che trovano comunque nell'economia fatta di sottili trame e corrispondenze del senso di un'opera letteraria una loro ragione di esistenza. La rottura di quel calice trova la propria cassa di risonanza nella mente del vecchio prete, echeggia attraverso le parole delle sorelle verso la fine del racconto per raggiungere il climax nelle due righe che chiudono la storia. Sono l'ictus del nucleo, la rottura di un capillare del senso, il battito d'ali di una farfalla che scatena il putiferio, l'incepparsi di un marchingegno morto ancora prima di morire. È alla luce di queste riflessioni che può avere senso anche la modificazione minima di quel meccanismo del senso che é la traduzione di un racconto. Si é intesto infilare una scheggia, una piuma di parole.
Il secondo esempio ci porta all'ultima pagina del volume di racconti, a quella bellissima "poesia" che chiude I morti. Qui il nucleo profondo del testo sembra sfuggire a una rigorosa definizione semantica. O meglio: sembra trovare attraverso un ritmo, una cadenza, quello della neve che cade attraverso tutto il racconto, quello dettato dalla ripetizione delle strutture lessicali e sintattiche delle ultime righe, una dimensione di significato altra rispetto alla semplice somma delle parole del testo. La caduta della neve rappresenta forse un nucleo ineludibile di ripetizione e ineluttabilità, l'accettazione ultima del destino umano. Scrive Joyce: "It lay thickly drifted on the crooked crosses and the headstones, on the spears of the little gate, on the barren thorns. His soul swooned slowly as he heard the snow falling faintly through the universe and faintly falling, like the descent of their last end, upon all the living and the dead." La traduzione che più si avvicina al senso ultimo, ritmico e cadenzato di questa pagina appare quella di Brilli. Non é un caso che le scelte "poetiche" di Brilli, rese con coerenza lungo il testo e talvolta forse discutibili a fronte di una cruda realtà di linguaggio più minimalista che incline a sottigliezze di ordine retorico, raggiungano in queste righe la loro maggiore compiutezza: "S'ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle pietre tombali, sulle punte del cancello, sugli spogli roveti. E la sua anima svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva la neve cadere lieve sull'universo, inesorabilmente lieve cadere, come la discesa della loro estrema fine, sui vivi e sui morti." La si confronti con la versione di Papi (che traduce tutti i racconti dell'edizione Garzanti tranne i primi tre, a cura di Tadini): "S'ammucchiava sulle croci contorte e sulle pietre tombali, sulle punte del piccolo cancello, sui cespugli brulli. E l'anima gli si velava a poco a poco mentre ascoltava la neve che calava lieve su tutto l'universo, che calava lieve, come a segnare la loro ultima ora, su tutti i vivi e i morti." Basta una congiunzione "e" nel primo periodo a spezzare l'incantesimo della cadenza nella traduzione di Papi. Si potrà obiettare che la versione di Joyce presente un "and" che Papi riprende nella propria versione. Non occorre entrare nel merito della diatriba tra traduzione letterale o traduzione a senso per avvertire (con l'orecchio) la differenza. Piace anche l'inversione che Brilli utilizza nel periodo conclusivo (la neve cadere lieve/inesorabilmente lieve cadere) che bene si conforma allo stile di quella traduzione, anche se nella versione che si é data, si é preferito seguire la ripetizione come criterio per determinare la forte enfasi posta da Joyce sul manto nevoso indice di una sorte comune per i vivi e per i morti. Ed é proprio in nome di questa ipotetica comunione che si é preferito tradurre "su tutti i vivi, su tutti i morti" al confine dunque dell'impossibilità logica ma sulla soglia della prosodia, del ritmo, del mantra che incanta. Tutta la traduzione vive del parallelismo, della ripetizione: "Si posava formando mucchi sulle croci sbilenche, sulle lapidi, sulle punte del piccolo cancello, sui cespugli brulli. Sentì la propria anima svanire al sottofondo della neve che lentamente cadeva attraverso tutto l'universo, della neve che lentamente cadeva, come la discesa dello loro fine estrema, su tutti i vivi, su tutti i morti." Tutto l'universo, tutti i vivi, tutti i morti.
L'ultima traccia ci riporta alla prima parte di questa introduzione e ci permette di chiuderla. I tanti nuclei ammassati al fondo dei racconti di Joyce non fanno che ripetere un'unica cosa, un'unica ossessione variandola, mutandola come un paesaggio alle diverse ore del giorno o come le diverse stagioni della vita umana. I tanti nuclei sono in fondo riconducibili ad una sola noxa, quella della separazione, della frattura dalle proprie radici, del problema primo di ogni irlandese, il "sense of place". Il senso del luogo che si desidera ma che si rifiuta per meglio comprenderlo. È il bilico, l'impossibilità di fuga da "quella emiplegia o paralisi che molti considerano una città."

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