Armitage a Bologna

Simon Armitage, l’incredibile della poesia

di Luca Guerneri

Compirà quarant’anni l’anno prossimo Simon Armitage, classe 1963, nato nel West Yorkshire e di strada (e di libri) ne ha fatta per uno che da piccolo si bagnava i piedi nel fiume Colne – come scrive in una sua lirica di qualche anno fa. Tutto ebbe inizio, così racconta, dalla nostalgia di casa, studiava a Portsmouth – psicologia e geografia – e il suo piccolo paesino disperso nella bruma dei monti Pennini gli mancava, e neanche poco. Cominciò con il prestito di qualche libro di poesia (Ted Hughes, in particolare) dalla biblioteca dell’Università dalla quale tornerà con una laurea in tasca. Quella di Armitage è un po’ la storia di molti poeti, con qualcosa in più però. Con quel talento naturale che contraddistingue i fuoriclasse, quelli che certo, si allenano a non finire, ma poi le cose ce le hanno nel sangue e, soprattutto, le intuiscono quel mezzo secondo decisivo prima degli altri. La storia (quella letteraria) comincia con Zoom! (1989) – ventisei anni e diecimila copie vendute in pochissimo tempo. Viene salutato come il giovane poeta più promettente dell’isola. Lo pubblica la Bloodaxe Books di Newcastle, la casa editrice che tra polemiche e successi, si incarica di dare una svolta radicale oltre che una reale alternativa al paludato catalogo della Faber&Faber. Newcastle, Huddersfield, siamo sempre in quel Nord dell’Inghilterra che dagli anni settanta in avanti aveva cominciato a sfornare talenti (leggi Tony Harrison e prima di lui Ted Hughes) e pubblicazioni, confermando anche nel micro quello che da tempo andava succedendo nel macro. Il centro (leggi il triangolo Londra-Cambridge-Oxford) cominciava a non tenere più. I poeti arrivavano dall’Irlanda (soprattutto quella del Nord) e anche da molto più lontano – si pensi ai Caraibi di Walcott. L’inglese andava incontro a una rivoluzione pari forse solo a quella subita durante il periodo Elisabettiano.
Zoom! è un cocktail esplosivo di vecchio e nuovo, di improvvisazioni pazze e imprevisti ripiegamenti a tempo di ballad (si veda Novembre). La pallina impazzita della poesia corre tra gli stili, posa i piedi sul trampolino della tradizione per lanciare un balzo verso lo slang e il vernacolo. Armitage, che nel frattempo si è trovato un lavoro come educatore per le persone in libertà vigilata, con quell’ingenuità frammista al talento che è tipica dei poeti grandi in gioventù, si guarda attorno e non esita a calibrare la vista ad altezza occhi. Ricorda il giovane Auden, per quella capacità di vedere il presente ma nello stesso tempo di piegarlo nel fluido del linguaggio poetico, elaborando le strutture e masticandole come si farebbe con un chewing gum. Si fa il palloncino e lo si gonfia sino a quando non scoppia. La poesia è al contempo leggerissima e pesantissima come nel finale della lirica che dà il titolo alla raccolta.
Nel 1992 esce Xanadu, solo in parte considerabile come opera di passaggio. Armitage scrive il testo di un TV poem, un lungo documentario illustrato dai suoi versi e che racconta la dura realtà di Rochdale, quartiere periferico di Manchester dove la vita è dura, il lavoro non c’è e un ago in vena sembra l’unica possibilità di fuga. In realtà Armitage dimostra di essere un creativo nel senso pieno della parola. Sa che la scrittura può essere usata oltre la ristretta cornice bianca della pagina di un libro. E comincia a scrivere per la TV, per la Radio, sente che può affrontare anche nuove forme e possibilità espressive. Non smetterà più.
Tra il 1992 e il 1993 il campioncino di provincia viene messo sotto contratto dalla grande società. Si è fatto le ossa e sforna prima Kid e poi Book of Matches per Faber. Le promesse sono mantenute, anche se con qualche passaggio un po’ appannato. Armitage scrive molto, moltissimo, forse troppo, ma è nella sua natura e in quello che Roberto Galaverni in un bellissimo saggio a lui dedicato su Nuovi Argomenti (insieme all’altro talento Grunbein) definisce necessario “interventismo poetico”. Armitage non è solo. È cresciuta con lui infatti un’intera generazione di autori che, nel corso di questi ultimi anni ha confermato quanto di buono prometteva dieci e passa anni fa. Riuniti sotto l’etichetta di New Generation Poets, cominciano a pubblicare in quegli stessi anni poeti come Jamie McKendrick, Michael Hofmann e Lavinia Greenlaw, già ospiti un paio di anni fa del Centro di Poesia Contemporanea.
Nel 1995 Armitage pubblica The Dead Sea Poems che contiene, tra le altre, il lungo e caleidoscopico poema Five Eleven Ninety Nine. Armitage lascia correre la penna e il falò che ricorda Guy Fawkes diventa il luogo dove bruciano le vanità, i ricordi, la follia, il tempo che passa. La scrittura di Armitage è quanto mai tesa, pronta, come alle origini, a cogliere il parlato, ma abile a inserirsi in quel tempo medio e distaccato di cui fu maestro Larkin senza dimenticare la rapsodia tra incubo e follia del conterraneo Ted Hughes.
Il 1997 è l’anno di CloudCuckooLand. Armitage decide di inanellare ottantotto liriche dedicate alle stelle e alle costellazioni. Il cielo, così si può dire, non è mai stato così vicino, dietro l’angolo. In questa raccolta si nota il tentativo di alzare il tiro, di sollevare la percezione verso dimensioni altre. A Glory che apre il volume è molto significativa da questo punto di vista. La traccia in forma di angelo che, cadendo a braccia larghe, è stata lasciata sulla neve si scioglie ma al contempo si solleva. Il poeta la osserva e la custodisce, l’ispirazione sembra avere bisogno di respirare aria più rarefatta. Poi viene la commissione per il millenium poem, dal titolo Killing Time. Armitage torna a pescare nel quotidiano, anche se sembra essere la cronaca a interessarlo maggiormente. La parodia delle ormai consuete notizie di incursioni folli e armate nelle scuole americane diventa un atto di accusa acre e stridente come sabbia tra i denti nei confronti di un sistema che non capisce, di una realtà che gli sembra lontanissima. Avrà modo di sperimentarla in prima persona di lì a poco quando si recherà presso l’Università dello Iowa a tenere il prestigioso corso di creative writing. Invitato a rimanere Armitage risponde comprando casa a Marsden, quattro case a pochi chilometri da Huddersfield. Lì è nato, lì vive e lì scrive. È un altro paradosso, il poeta che gira, legge ovunque, è sempre in movimento, collabora su mille fronti, ha un punto di riferimento preciso, ha un accento dello Yorkshire del suo paese che nessun viaggio a Londra ha minimamente scalfito.
Da pochi giorni sono nelle librerie inglesi due nuove raccolte: The Universal Home Doctor, dalla quale è tratta Incredibile, e Travelling Songs.
Si diceva del desiderio di provare nuove forme espressive. La prosa dunque. Armitage, qualche anno fa, ha pubblicato, con ottimo successo di pubblico e critica, All Points North, un libro difficile da definire, a cavallo come si trova, tra autobiografismo, libro di viaggio (dentro un raggio di non più di dieci chilometri da casa) e invenzione allo stato puro. Definibile è però lo stile: gli spunti narrativi che già caratterizzavano così fortemente la sua poesia, trovano qui la possibilità di estendersi. L’ironia velata di cinismo, la presa in giro bonaria (se stessi compresi) contribuiscono a creare un libro che spesso fa allargare il cuore in un sorriso. Ma Armitage non si è limitato a questo: ha voluto provare il terreno della fiction vera e propria. Con Little Green Man (di prossima pubblicazione da Guanda) ha scritto il libro che non ci si aspetta da un poeta. Trama solida, personaggi mai fumosi, ironia alla Hornby, un pizzico di follia alla Welsh senza dimenticare la cattiveria di Amis o la lucidità di McEwan. In Inghilterra è già uscito in paperback e il successo, anche commerciale, è dietro l’angolo. Soprattutto se un critico severissimo come Tom Paulin, uno dei poeti più interessanti della generazione precedente, ne tesse le lodi nel corso del proprio programma dedicato ai libri in TV.
Un ringraziamento, per chiudere, va ad Andrea Gibellini, direttore del Centro di Poesia per avere condiviso gli sforzi fatti in questi anni per fare conoscere Armitage in Italia. È anche grazie a lui (e alla lungimiranza di Antonio Riccardi e Maurizio Cucchi alla Mondadori) se si è riusciti a pubblicarlo nella Collana dello Specchio. Le traduzioni che seguono sono prese da questo volume uscito nel Novembre del 2001 a cura mia.

Luglio, 2002

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