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La canzone dura giusto giusto il tragitto da casa a scuola. Il tempo di tirare fuori l’auto dal garage, lanciare lo zaino teschiato nel sedile posteriore, infilare il cd nella fessura, attendere che compaia la scritta ‘reading’ sul display e fare silenzio, nel ronzio al minimo del motore. Scendo, richiudo la porta del garage, risalgo in auto e siamo pronti. I protagonisti a questo punto siamo tre, io, Francesco e una canzone dei Beatles che si chiama ‘lucy in the sky with diamonds’. Io canticchio con Lennon quello strano mondo di immagini fatte di persone che se ne vanno a zonzo su un fiume su una barchetta, di fiori di cellophane gialli e verdi ma quando Ringo picchia tre volte “dum dum dum” non sono più solo. Il ritornello lo cantiamo insieme, una voce sola svoltando su via ca’ rossa, un’occhiata all’orologio del cruscotto, sarà già suonata la prima? La voce è una sola ma io penso alla storia di quella canzone: il figlio di Lennon che viene a casa con un disegno cui ha dato quel titolo lì, penso a ‘tradurre’ ancora una volta, a quanti e quali significati possa avere quella parola. Penso alla traduzione di due mondi creativi, quello del piccolo Julian Lennon di quattro anni e quello del grande John Lennon, poi è ancora ‘dum dum dum’ a colpi di bacchetta ci richiama quel mattacchione di Ringo. E via che ricantiamo. Francesco pensa a una sua compagna di classe che si chiama come la compagna del piccolo Julian e quando segue il ritornello ci mette dentro qualcosa che io non posso sapere né voglio sapere. Se siamo fortunati e qualche ‘lento’, come li chiamiamo noi, ci allunga il tragitto, la canzone finisce e sento una voce che viene da dietro e ripete ‘ancora, ancora’.

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