O, for my sake do you with Fortune chide

And almost thence my nature is subdued
To what it works in, like the dyer's hand.


Nei versi del sonetto CXI di Shakespeare, ripresi da Auden per il titolo della propria raccolta di saggi, La mano del Tintore, un'immagine che insegue se stessa, un soggetto che si fonde con il proprio oggetto. L'azione determina la natura che invariabilmente la compie. È un concetto che vale per molte attività creative e dunque anche per la traduzione e implica una serie di movimenti di ritorno, di andata e ritorno tra soggetto che agisce e oggetto che subisce. Shakespeare sta più semplicemente chiedendo ammenda per "the public means which public manners breeds" e dunque per i modi con cui si guadagna fama e guadagni. Si tratta di modi 'public' e dunque 'pubblici' ma anche 'volgari'. Si tratta, con tutta probabilità, del teatro. Ma leggiamolo come lavoro 'public' e allo stesso tempo creativo. Leggiamolo come soggetto a critiche, opinabile, rivedibile e leggiamo quel 'volgare' come soggetto al volgo che lo giudica. Suona più familiare, la mano del tintore batte anche i tasti e volgarizza, si fonde da soggetto in oggetto e, inevitabilmente, resta invischiata in ciò che produce per via di quanto la produce. Si attendano quindi "potions of eisel" e "double penance" che sgravino dalla contratta 'strong infection' del voler maneggiare parole come tinture, del volere tingere pellami nati con altre sfumature di colore. Oppure non resta che invocare con W. S. un caro amico e la sua pietas. Quella potrà salvarci, forse, dall'amarezza.

Pity me then, dear friend, and I assure ye
Even that your pity is enough to cure me.

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