Tim Parks sul sole 24ore

L'inserto domenicale del quotidiano finanziario riporta a pag. 35 un articolo di Tim Parks sulla traduzione dal titolo "Tradurre bene: è una parola!" (sigh!) Si tratta in sostanza di una recensione a un volume da poco edito in America - "Why Translation Matters" a cura di Edith Grossman, "celebre traduttrice americana", ci informa Parks, "del Chisciotte". La Grossman sostiene che da parte della critica letteraria persiste la quasi totale assenza di attenzione riservata alla traduzione rifiutando però di accettare l'idea che vuole che chi si occupa di un testo in traduzione sia comunque giustificato dalla non conoscenza della lingua di partenza. Il problema, come al solito, arriva quando si tratta di definire in base a cosa, un traduttore, debba essere giudicato, se non si conosce la lingua di partenza. Grossman, ci dice Parks, inevitabilmente si perde e ricomincia con la consueta tiritera degli attivisti contro gli originalisti (distinzione che, ovviamente, nasconde la consunta diatriba tra fedeltà e infedeltà sotto le coperte di quello strano legame nuziale che è il rapporto tra il traduttore e il testo tradotto). Buona invece la parte che viene dedicata al lavoro del traduttore e alla sua capacità di lettura. Vecchia idea che chiunque si sia minimamente occupato di traduzione conosce benissimo. Non ci sono garanzie di successo, ma più conosco l'autore, più libri di/su di lui/lei ho letto, maggiore è la mia capacità di inserirlo in un contesto storico-letterario (se si tratta di tempi andati), più raffinato è il mio orecchio e dunque più capace di cogliere sfumature, variazioni dinamiche, accensioni di ritmo decisamente più alte risultano le mie possibilità di successo nella pratica della traduzione. Poi nell'ultimo paragrafo dell'articolo anche Parks passa alla "pars constuens" della faccenda: "Esempi? Uno degli effetti più difficili da rendere, traducendo dall'inglese, è un certo ritmo monosillabico, spesso rafforzato da un uso sapiente dell'allitterazione, per creare un 'pathos' lento quanto greve." E passa a citare il celeberrimo finale de I Morti di Joyce nella traduzione di Papi e Tadini". Conosco bene quel finale per averne tentato una traduzione in una collana per giovani traduttori lanciata da Guaraldi fanno quasi quindici anni or sono. Avevo cercato di seguire quella cadenza ipnotizzante appoggiandomi su ogni possibile parallelismo, non solo dunque a livello di allitterazione ma di ripetizione vera e propria delle parole, spingendo sino in fondo il ritmo che era impossibile non sentire. Avevo tradotto addirittura (follie di gioventù che l'assenza di editor veri e propri lasciò correre) "su tutti i vivi e su tutti i morti", al limite dell'impossibilità logica su quel "tutti i morti". E va bene: ma non è un po' pochino per risolvere la questione? Non si avverte il consueto baratro, il consueto densissimo e scurissimo baratro fatto di Guinness aprirsi ancora una volta nel momento in cui si passa dalla teoria alla mera praticaccia? L'allitterazione ci salverebbe dunque dalla catastrofe? E non è un sintomo dello stato avanzato della malattia il fatto che solo un mezza colonna sia dedicata alla cura per il male e tutto il resto dell'articolo all'esposizione della semeiotica? Io una mezza idea me la sono fatta: credo che, come sosteneva Derrida, sia impossibile "definire" la distinzione tra una metà di lavagna lasciata nera e una metà riempita con il bianco del gesso. Ovvero: la struttura funziona ma non esiste in sé, è un artificio perché non ha un fondamento unico, un dogma, un punto d'arresto. Come direbbe Lacan, guai a bloccare la domanda su quel dogma, su quel punto di arresto, pena l'escrescenza, lo sviluppo della malattia in qualche altro punto. Perché la teoria della traduzione non riesce ad accettare la propria natura puramente contingente? La qual cosa non significa cessare la ricerca ma comprenderla in un'etica di desiderio, in un movimento fluido, un paradigma dai piedi d'argilla.

Commenti

Post più popolari