Otto anni or sono in quel del Salone del Libro di Torino

Forse la feci un po' troppo lunga con la storia del rigore tirato fuori appositamente ma con grande classe... comunque andò così:

Torino, 17 maggio 2002

Intervento alla tavola rotonda “Come si diventa traduttori”

Per commissione e/o per passione
Di Luca Guerneri

Per prima cosa vorrei dire che collaboro con il Master in Traduzione letteraria organizzato dall’Università di Bologna, il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università e dall’Associazione “Dopo Babele”. Proprio da una delle fondatrici di questa associazione, Isabella Ruggi, nacque l’idea, qualche anno fa, di attivare un corso di traduzione a Bologna. Venne logico, per una questione di amicizia e interessi comuni, contattare il Centro di Poesia: di qui il corso, nato come struttura privata prima, finanziato dalla regione poi e da quest’anno diventato Master dell’Università. La stretta collaborazione con il Centro di Poesia ha fatto sì che la traduzione poetica avesse, da sempre, un ruolo molto importante, molto vicino a quello della traduzione della prosa. Occorre aggiungere, ed è premessa importante, che ogni docente lavora in piena autonomia di metodi (non so da D’Elia poeta che parla di Baudelaire a Menarini prof. universitario e traduttore di Lorca corrono diverse forme di approccio e sensibilità). Il discorso che segue è solo in parte quindi, rappresentativo degli intenti del corso.
E allora? Come si diventa traduttori di poesia? E non è che lo si nasce?
La poesia è da sempre un bel problema per la traduzione. Ritenuta ora impossibile, ora inutile, ora frutto del genio individuale. Territorio esclusivo ora dei poeti ora dei letterati di professione Ma anche: passibile di regole, strutture, norme. Tradita e infedele, brutta e letterale. La mia impressione e che occorre procedere a buon senso, per un po’almeno, poi, inevitabilmente, lasciarlo da parte.
Il buon senso: ci dice che la poesia resta, quando è riuscita, una macchina perfetta. Gli ingranaggi al posto giusto, oliata a dovere. Passibile di una serie di test e collaudi. Il bello è che la si può percorrere in lungo e in largo, dalla fine all’inizio, dalla superficie alla profondità. Quando una poesia lo è davvero assomiglia a un curioso ipertesto dove tutto si tiene, dove tutto sta insieme. È da qui che occorre partire. Un buon lettore di poesia ha buone, discrete, possibilità di essere un buon traduttore di poesia. Per essere un buon lettore occorre possedere molti strumenti. Per la poesia serve quasi tutto. Intertestualità, ad esempio, è una parola magica: gli agganci si moltiplicano. Prosodia, semantica, semiotica, conoscenza delle strutture metriche, quasi tutto quello che pertiene all’analisi testuale. E qualcosa in più. Il primo passo dunque consiste in una lettura la più ampia e ricca possibile. Per lettura di un testo intendo, in senso allargato, anche la raccolta dove la poesia è inserita e, quando possibile, l’opera completa dell’autore.
Mi piace partire da John Donne allora, lavorare sul testo e poi confrontare le tante traduzioni possibili. Quella di un poeta come Giudici ma anche di un anglista come Melchiori. E poi fare un salto di cinque secoli e dare un’occhiata a quello che si agita ai giorni nostri.
La mia impressione è che però, paradossalmente, a un certo punto il buon senso occorra lasciarlo da parte e che, anzi, sia necessario tentare di percorrere strade meno battute. Non c’è il tempo, ora, di ragionare sul fatto se una traduzione poetica debba essere o meno un testo autonomo, quale sia l’obiettivo che si ha in mente. Ripeto agli studenti che occorre essere pronti a giustificare le scelte, a essere coerenti nella traduzione (ho in mente una traduzione, diciamo così, da testo a fronte? Bene, lavoro e scelgo di conseguenza) ma finisco sempre ad appassionarmi alle soluzioni. E l’inatteso, spesso, con la coerenza ha poco a che fare. La natura paradossale della traduzione poetica abita più o meno da queste parti. Nasce dall’incontro di due poetiche e non è da megalomani pensare di possederne una propria anche quando si incontra un fuoriclasse come Gerald Manley Hopkins. È chiaro che si rischia di tornare a casa con un triplo sei zero, ma anche con la serenità di chi ha messo piede sul centrale e non solo su uno degli eleganti palchetti a pagamento. Fedeltà, infedeltà sono in questo punto un ricordo lontano. L’incontro di due poetiche, analisi del testo, dell’autore ma anche del traduttore.
E la didattica a questo punto? Dove è andata a finire? Nella comunicazione e nel confronto. Sono i momenti più belli del lavoro. Si insegna e si impara, si rileggono le proprie proposte e non si ha difficoltà ad ammettere che l’esperienza, non sempre almeno, determina la bravura. Diciamo allora che si può comunicare un’apertura, una dimensione della visione. Parole grosse che si sostanziano però di piccole cose. La poesia come lettura e traduzione si apre a un ampio campo di discipline.
Una è la musica. La musica, è mia opinione, è meccanismo fondamentale nel gioco della traduzione poetica. Ho letto pagine di Glenn Gould molto più utili - si può dire? - di tanti linguisti o accademici dediti alla coltivazione del piccolo orticello di un qualche minore del settecento. Quando in un saggio scrive delle Variazioni Goldberg, ad esempio, e dice che sono tenute insieme da una pulsazione fondamentale che occorre sapere intercettare durante l’esecuzione. Il ritmo anche lui sta di casa da quelle parti. O così mi pare di avere capito da Meschonnic. O ancora: Morton Feldman, un compositore americano contemporaneo, che lavora su pattern musicali minimali attento a non riguardare quello che ha già scritto in modo tale che la ripetizione contenga sempre delle piccole “imperfezioni”. E tuttavia discepoli della lezione del punk, chiunque può prendere uno strumento in mano e provarci. Niente esoterismi o giochi di potere. Si gioca in campo aperto.
È una curiosa relazione a tre, a quattro allora e già questa è una novità. C’è il testo il traduttore a ma anche il traduttore b, quello c, e persino quello d. E c’è chi coordina con un po’ di esperienze alle spalle.
Per paradosso allora, ecco che quella che sembrava una sconfitta in partenza (e forse lo era) – Bob Frost diceva che la poesia è esattamente quello che va perso in traduzione – si trasforma in una sconfitta che può essere gloriosa. Il rigore tirato fuori di cui si parlerà per anni a venire.
La traduzione della poesia non perde mai, e anche questo, va detto la sua natura di pratica, di luogo dell’agire. Pratica, praticaccia, la fatica del tradurre ottanta poesie dello stesso autore, e magari avere due mesi di tempo per farlo.
Per passione e per commissione allora, come scriveva Giovanni Giudici nella prefazione a una sua raccolta di traduzioni di qualche tempo fa.

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