Intervista a Michael Hofmann

LG: Emotivamente corto-circuitata, depressa, passiva-aggressiva, nichilista? Leggo questa definizione della tua poesia nel volume di Sean O’Brien The Deregulated Muse? Cosa te ne sembra?

MH:Dio mio, ma è questo che ha scritto? Il livello del dibattito sulla poesia in Inghilterra fa veramente pena. Mi pare chiaro anche solo leggendo queste notazioni. A Sean non piaccio, va bene, ma il problema vero è che non trova il linguaggio appropriato per dirlo. Sembra un insegnante di ginnastica o un sergente maggiore oppure un qualche maniaco salutista stile New Age. Penso che se prendi una mia poesia, poi ne fai un resoconto fasullo, prendi a prestito questo linguaggio odioso che usa da analista che non sa fare il suo mestiere, beh allora si potrebbe anche – ammesso che tua sia particolarmente sfortunato – arrivare alle sue stesse conclusioni. La prima etichetta e la terza mi sembrano completamente prive di senso, onestamente, non capisco cosa vogliano dire. Per quanto riguarda il ‘nichilista’ e il ‘depresso’ penso, beh cosa c’è di peggio che uno possa dirmi? Sembrano derivare un’ignoranza profonda di quello che è la poesia, un mancanza assoluta di empatia. Mi chiedo cosa direbbe di Montale, Eliot, Benn.
Ma forse ti interessava sapere cosa penso della mia poesia piuttosto che parlare di Sean. Tutto sta, come dire, sospeso. Se tutto procedesse in un’unica direzione, il punto di arrivo non sarebbe altro che una scialba unanimità. Ci sono poesie tristi, alcune piene di stizza, altre ancora viziose, ma se presti la dovuta attenzione, scavi, la vivi da dentro, ne condividi il tempo, allora ti rendi conto che le cose sono molto diverse. Tutti quelli che hanno letto Acrimony in modo intelligente si sono resi conto che il libro era pieno d’amore, o almeno quelli che non hanno pensato che fosse odio da complesso edipico. Ho ricevuto un biglietto a proposito di Approximately Nowhere, bellissimo, diceva che il lettore l’aveva trovato pieno di gioia, penso che avesse ragione nel senso più assoluto, è una parola piena di ispirazione per definire quel libro. Certo, se metti in campo il carro armato come fa O’Brien non riesci a vedere nulla. C’è una bellissima poesia di Derek Mahon, una specie di ars poetica, dove dice ‘te ne vai via e percorri il resto della tua strada.’
Ci sono due cose che nessuno ha capito completamente di me. C’è un aspetto ‘brillante’, mi verrebbe da dire come uno scintillio che va in direzione opposta, c’è umorismo, bellezza, ironia, anche la più triste delle poesie contiene qualche piccolo scherzo, qualche piccolo piacere. Conosci la sequenza che in fisica denota il rapporto tra solidi e acqua… soluzione, sospensione, solvatazione, contrazione… beh, quello che sto cercando di descrivere è qualcosa di vicino alla solvatazione, una serie di particelle trascinate nel flusso di qualunque natura sia ma che di tanto in tanto saltano e danzano nei loro rapporti instabili! E poi c’è la definizione che dà Pound di logopoiea: il danzare dell’intelletto tra le parole. Il risultato è una specie di poesia ‘underground’, nel senso etimologico del termine, o forse sarebbe meglio dire con il tedesco hintergrundig (il dizionario dice: criptico, enigmatico), è questo che riesce meglio usando l’inglese, o così mi sembra, o comunque è così che, da straniero, ho cercato di usarlo io. L’altra questione riguarda il fatto non c’è nulla di involontario, stupido e doloroso in quello che faccio. Si tratta di una parata, una specie di “passerella”! Lavinia (Greenlaw) ha trovato questo sito in internet di una rivista che si chiama ‘Verbigracia’. Mi ha fatto molto piacere leggere, a un certo punto: “Le confessioni di Hofmann… possiedono la stimabile virtù di del limite. Non espongono o rivelano nulla di più di quanto non sia necessario.” Pare che ci voglia un critico venezuelano per capire quanto sono stupidi certi critici inglesi! ‘Confessionale’, game over.


LG: Chi sono i poeti che ti hanno portato a diventare poeta? So ancora gli stessi ai quali fai riferimento?

MH: Ho sempre pensato che avrei scritto in prosa, come mio padre. Sonno un prosatore mancato. Poi, avrò avuto diciassette o forse diciotto anni e mi sono ritrovato a leggere un sacco di poesia, mi ricordo che la divoravo di notte. Pound, mi ricordo, Stevens, Rilke. Poi qualche tempo dopo, una vacanza da Cambridge, dove avevo cominciato a studiare, era l’inverno del ’76, mi portai a casa un volume di Lowell. Mi colpì più di tutto quello che avevo letto sino a quel momento. Fu così che cominciai a scrivere. Poi lessi Enzensberger, Brodsky, Kavafis, Herbert. Poca roba inglese, Ian Hamilton. Non è certo stata la poesia inglese a spingermi a scrivere. Non sono nemmeno sicuro che quanto scrivo possa definirsi poesia inglese o piuttosto poesia continentale in inglese o poesia transatlantica. Mi piacciono sempre gli stessi autori, non è che ne abbia adottati molti altri. Benn, Montale, un poeta americano della cerchia di O’Hara e Ashbery che si chiama James Schuyler, molto meglio degli altri due, maggiore sensibilità…

LG: Mi dici qualcosa della tua amicizia con Brodskij?

MH: Lo adoravo Brodskij, l’avevo sentito leggere di persona nel 1979, ma io l’avevo già letto prima. Non so come accadde esattamente. Certo è che le sue poesie furono una rivelazione, e poi l’incontro con la persona, seppure per certi aspetti contraddittorio, fu una rivelazione ulteriore. Alcuni anni più tardi entrai nella sua orbita, intorno agli anni ottanta, mi ricordo che veniva a Londra d’estate e ci stava per un mese o due. Ci vedevamo spesso, era molto divertente. Sì, forse avrei dovuto tenere degli appunti ma c’era questo di bello in lui, da parte mia, che non mi sentivo per nulla intimidito, che non mi passava per la testa di stare lì a fare il suo biografo, nemmeno mi andava di tirargli la giacca. Di gente come me e è pieno il mondo, lui era unico.

LG: Il tuo lavoro di traduttore interferisce con la scrittura?

MH: Sempre! In questo momento, ad esempio, sembra averla resa impossibile, l’ha come sostituita. Quando lavoro alla traduzione di qualche testo – e non mi aiuta il fatto di tradurre perlopiù prosa – spesso non riesco nemmeno a parlare, figurarsi scrivere! Ti porta via tutte le parole. Suona un po’ ingrato dire queste cose. Forse qualcosa ti torna indietro, le sensazioni che vengono da un idioma straniero, come se si appartenesse a un continuum allargato, un po’ di sicurezza in sé – ma essere onesti di lati positivi non ne vedo granché. Cerco di pensare che è qualcosa che mi appartiene o che c’è qualità in quello che faccio, ma anche questo è tutto da dimostrare. È un po’ come lavorare alle dipendenze di qualche grande chef e rinunciare a servire i tuoi piatti mediocri da autogrill.

LG: Leggo dal risvolto di copertina dell’ultimo libro di Heaney. C’è la citazione di una tua recensione dove scrivi: “C’è questo di grande in Heaney, questo suo progresso pieno di avventura da libro a libro e da poesia a poesia, questo suo non riposare mai sugli allori.” Mi piace la parola ‘pieno di avventura’. Cosa c’è di avventuroso nello scrivere poesie?

MH: Vent’anni fa mi ricordo di avere formulato la cosa in questi termini: scrivere è “improvvisare con una penna in mano”. Dal caos e dal vuoto della mente produci qualcosa che, nel migliore dei casi, flirta con la bellezza. Per quanto riguarda Heaney, beh, lui è così affidabile, uno da cui puoi dipendere in toto, mai caduto in qualche forma di silenzio prolungato, mai fatto nulla di cui pentirsi, non si è mai dato via in cose che non avessero a che fare con la poesia. Per lui la poesia è qualcosa che ‘esiste in sé’ o come direbbe Benn, ‘abenfüllend’, quello che davvero conta. Lowell, Hughes, Heaney, Murray, Bishop. Certo che in una società come quella inglese al giorno d’oggi la faccenda si fa ancora più dura. Heaney è là con i grandi e quello che volevo dire è che anche per lui è una grande altura, imprevedibile, mai sterile, sempre in movimento. Sono tutti fonte di ispirazione e lui non meno degli altri.

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