Vecchia postfazione a un numero di "In forma di parole"

La New Poetry della Bloodaxe
Nel 1993 la Bloodaxe di Newcastle aveva dato alle stampe The New Poetry curata da Michael Hulse, David Kennedy, David Morley. Sembrò ovvio che ad incaricarsi di pubblicare la antologia del decennio fosse quella casa editrice che maggiormente si era distinta nel lavoro di rilevazione e scansione della produzione poetica emergente. L'antologia, come sempre succede alle antologie, ricevette grandi consensi, grandi critiche; ci fu chi la salutò come la tanto attesa "rivoluzione" poetica, chi non vi vide nulla di originale e la snobbò. Per intanto, però, l'avanzata del Nord, già segnalata tra gli anni settanta e ottanta, arriva ad un punto di svolta decisivo: di pubblicare l'ideale punto di raccolta della poesia degli anni novanta si fa carico una casa editrice molto lontana e non solo geograficamente, dal triangolo tradizionale Londra-Oxford-Cambridge. Che il centro non tenesse più era già sembrato evidente con la pubblicazione de The Penguin Book of Contemporary British Poetry a cura di Morrison e Motion nel 1982, ma che anche l'egemonia editoriale passasse la mano in maniera tanto clamorosa fu davvero un segnale importante.
L'antologia è un distillato di pluralismo; se Motion e Morrison avevano deciso di selezionare venti autori i tre curatori di The New Poetry ne antologizzano ben cinquantacinque. Sembra esserci davvero spazio per tutti: ma anche qui non mancheranno le critiche.
Come sempre accade, ancora prima del gioco preferito da tutti i critici all'uscita di una nuova antologia il "chi c'è chi non c'è", ci si buttò a capofitto sull'Introduzione. Salvo gettare l'occhio sulla sinistra e vedere che l'Introduzione era preceduta da una Prefazione. I primi dolori: i tre curatori dichiarano due cose: a) non abbiamo antologizzato nessuno degli autori presenti ne The Penguin Book of Contemporary British Poetry b) non abbiamo antologizzato nessun autore nato dopo il 1940. La motivazione addotta per entrambe le decisioni è che in questo modo l'antologia sarebbe risultata la più "giovane" possibile, la più vicina a quanto effettivamente si andava pubblicando e scrivendo.
La prima frase dell'introduzione fece sobbalzare molte persone: "Every age gets the literature it deserves" [Ogni epoca ha la letteratura che si merita]. Verità profonda quanto "elementare" se poi non si passa a definire e la letteratura e l'epoca e il rapporto che le lega. Ma Hulse, Kennedy e Morley sembrano avere le idee chiare. La società inglese degli anni ottanta ha prodotto fasce economicamente deboli - underclass sempre più stabili e definitive; l'Inghilterra come identità culturale non esiste più: l'amplissima immigrazione ne ha fatto il punto di fusione ed incontro ideali per le tante culture (soprattutto indiane, caraibiche ed africane) che prima facevano parte del concetto "per esteso" di Regno Unito. Inutile dunque insistere troppo sulla definizione e certezza di un qualche "self" che prevalga sull'altro.
La poesia è dunque "black" - antologizzata e in questo senso ufficializzata per la prima volta è la poesia di Linton Kwesi Johnson con il suo utilizzo di un inglese "creolo" e "pidgin", quasi da rap urbano. Viene sottolineata l'avanzata (ma anche questo era già stato un fenomeno tipico degli anni settanta) della poesia scozzese, irlandese, gallese. Della poesia al femminile (37 uomini e 18 donne - non siamo tanto lontani dunque dal rapporto già evidenziato nell'antologia di Motion e Morrison).
Si parla di una New Poetry che sia più accessibile, democratica, responsabile, seria ma non seriosa. Si riafferma la necessità che il poeta incida sulla società, che prenda i rischi dovuti, magari monologando dai sobborghi come fa Carol Ann Duffy. O come fanno, sempre secondo i tre curatori, poeti quali Ciaran Carson, Sean O'Brien, Michael Hofmann, Fred D'Aguair, Sujata Bhatt.
Si definì, in sostanza, quell'Introduzione come un ritorno ad una poesia impegnata; si usò, forse con eccessiva disinvoltura, il termine di poesia politica.
Ed è tutto giusto, ed è tutto vero. Ma, forse non del tutto nuovo, non del tutto originale. A cominciare dal titolo: The New Poetry - il medesimo dell'antologia di Alvarez che nel 1962 aveva cambiato la direzione della poesia inglese di quegli anni. E anche nei contenuti, in particolare dell'Introduzione; gli stessi Motion e Morrison avevano raccontato di una poesia "nuova", capace di portare avanti una politica "quotidiana". Avevano antologizzato Harrison e Dunn e in quegli anni non erano certo degli autori affermati. Avevano commesso un errore di prospettiva (in buona misura riconosciuto): quello di attribuire troppa importanza alla martian poetry che funzionò più come etichetta colorata che come qualcosa di veramente nuovo. Reid a Raine i maggiori esponenti di quella corrente erano poeti che non necessitavano certo di etichette a sfondo pubblicitario.
Sia chiaro: l'antologia della Bloodaxe ha avuto un'importanza decisiva; è stata capace di raccontare i mille volti di una società e di una cultura in via di definizione; se non altro ha provato a farlo e proprio mentre questo avveniva in maniera clamorosa.
Rimane però evidente anche l'impossibilità e di fissare un limite a tanto pluralismo e di trovare (se poi questo è davvero necessario) una linea di definizione comune. Il pluralismo, il multiculturalismo sono un dato di fatto talmente evidente che forse non bastano una visione "politica" e una introduzione in un'antologia per poterli spiegare.

I New Generation Poets

Nella primavera del 1994 la Poetry Society (una delle più antiche e gloriose istituzioni della poesia inglese) decise di organizzare una specie di censimento dei poeti che avevano pubblicato una o al massimo due raccolte sino a quell'anno. Affidarono dunque il compito a critici e poeti di selezionarne venti per un numero monografico della rivista Poetry Review nel quale raccontarli un po' più da vicino, dare loro la parola. Si trattò, in definitiva, di cercare quali fossero le voci più importanti della poesia inglese alla metà degli anni novanta. Si parlò dei "poeti del duemila". Di fatto ne uscì fuori una nuova "antologia" cui seguirono, come era stato per quella della Bloodaxe, i soliti strascichi polemici.
Nel suo editoriale di apertura Peter Forbes, editor della rivista, sottolineò la pluralità delle voci e fin qui niente di nuovo. Ma andando a guardare un poco più in profondità tra le letture dei poeti selezionati (a tutti venne chiesto di indicare tre autori e tre titoli di opere preferite) si può cominciare a trarre qualche conseguenza generale. Nella curiosa classifica che ne seguì, infatti, il primo posto venne assegnato all'americano Robert Lowell. Non è un dato privo di significato: la capacità di Lowell di sapere usare un certo metro e l'abilità (soprattutto dai Life Studies in avanti di "abbassare" il soggetto senza però fare perdere di vista la poesia come elemento cardine, la poesia dunque e non la prosa prima di tutto) ne hanno fatto un eroe in terra d'Albione. E l'accento lowelliano è molto forte soprattutto nelle prime opere di Armitage. Le donne elessero a loro rappresentante Elizabeth Bishop - un'altra americana, un'altra voce isolata e sottovalutata della poesia americana di questo secolo. Tra gli inglesi il più selezionato fu Auden, segno di un ritorno in grande stile del poeta che il Movement aveva cercato in ogni modo di cancellare dalla tradizione. Sono tutti indici di un ritorno ad una poesia "colloquiale" ma che, come evidenziato dall'antologia della Bloodaxe di cui sopra, non perdesse di vista un'ideale commistione con la società, con la "politica" intesa in un senso quotidiano. La poesia dell'interiorità itinerante rappresenta l'indice di un'identità mancata o frammentata, di una voce divisa tra il desiderio di affermare e il dubbio, lo scetticismo costante circa la prevalenza di un punto di vista sull'altro. E Glyn Maxwell, il teatrale rimescolatore di registri è un "self" che sfugge a qualsiasi ipotesi di definizione che l'inchiodi, come una farfalla, con lo spillo del collezionista. A tale proposito Forbes utilizza il termine "postmodernismo"
Ma ci sono voci che stanno completamente fuori dal coro: come quella della Garrett che non sa indicare un poeta del ventesimo secolo; dichiara candidamente di amare John Donne, il poeta metafisico del seicento. Un'affermazione che avrebbe fatto felice T.S.Eliot (a dire il vero quasi completamente dimenticato dai New Generation Poets del 1994). O quella di Jamie McKendrick che mette Montale tra i poeti che ha maggiormente amato e che dal suo lungo soggiorno italiano ha ricavato toni e accenti mediterranei.
La pubblicazione di quel numero monografico della Poetry Review ebbe dunque diversi meriti: diede visibilità ad una generazione di poeti, riconfermò in buona sostanza (e, come visto ce n'era bisogno) alcune delle istanze proposte dai curatori dell'antologia Bloodaxe. Non mancò un attacco robusto al triangolo già citato Londra-Cambridge-Oxford identificato. Si attaccò una certa politica culturale "nepotista" secondo la quale, affermava Forbes, rimaneva poco spazio per la "New Gen" mentre larga eco veniva riservata agli amici degli amici.
Anche nella Poetry Review figurano in maniera equa inglesi e "non" a testimonianza del fatto del pluralismo delle voci su cui tanto è insistito; si riconosce l'importanza e l'ampiezza del lavoro svolto dalla Bloodaxe come strumento di diffusione.
La nuova generazione è viva, sembra essere il messaggio definitivo che esce dalla copertina colorata di giallo e viola della Poetry Review. È viva e non ha intenzione di mollare la presa.

Le scelte

La Storia con la S maiuscola segue un proprio corso che spesso la nostra storia individuale (con la s minuscola) non conosce o volontariamente ignora. Si amano i poeti non certo perché rappresentano questo o quel movimento ma perché sanno dire il mondo con parole misteriose e familiari che sentiamo di comprendere e condividere. Capita anche, però, che le nostre scelte finiscano con l'individuare percorsi già noti. E cioè che oltre che descrivere una mappa del nostro sentire, le nostre scelte disegnino un tracciato di portata più ampia. Nasce un punto di contatto che la consapevolezza critica può disvelarci. Questo o quel poeta passano lungo gli snodi del fare poetico, o così a noi sembra.
Ecco allora Christopher Reid che della poesia degli anni '80 e '90 è stato tra i "padri" con quell'abile mescolanza di sorprendente e familiare, di straniato e consueto che i poeti che sono venuti dopo di lui non hanno dimenticato. La sua poesia ha preso una piega più familiare, intimista e nel corso degli anni un certo retrogusto malinconico. I suoi "universi espansi" sono i microcosmi di una quotidianità rivissuta in tranquillità seppure carica di sottili tensioni irrisolvibili. Il ruolo di Reid in questi ultimi anni (sia come poeta che come poetry editor della Faber & Faber) lo colloca tra le figure principali del ventennio. Sua è stata la capacità, nei limiti del possibile, di dare spazio nella gloriosa ma un po' imbalsamata casa editrice di Russel Square (anche se a dire il vero ora è dietro l'angolo), a voci nuove, non ultime quelle di Armitage e Maxwell.
La figura di Armitage rappresenta un fenomeno sconosciuto dalle nostre parti. L'anno duemila sarà il 37 dell'esistenza di questo poeta che da uno sperduto paesino dello Yorkshire è diventato "la" voce più influente della sua generazione. Tanto da essere (dopo la recente scomparsa di Hughes) tra i papabili per il ruolo di Poeta Laureato. La sua poesia "nordista" che nasce e si sviluppa su un substrato di regionalismo linguistico con robuste iniezioni di cultura americana ha saputo parlare la lingua di questo nostro tempo. Con il cinismo del comico che non ride mai, con la commistione di linguisticamente sacro e profano, con l'empatia un po' scorbutica tipica della gente di quella regione. Con quella capacità di dispiegare le ali e batterle verso l'alto portando con sé una dimensione di oltre che lascia senza fiato per tanta altezza raggiunta. Da 0 a 100Km di altezza in due versi secchi.
Di Glyn Maxwell già si è detto. Maxwell racconta con tono crudo la devastazione della guerra nella ex-Jugoslavia ma sa allo stesso tempo giocare di carambola con il sentimento amoroso. È forse tra i poeti che meglio riassumono una certa "schizofrenia" (l'io, il tu, il noi divisi e rispecchiati in un gioco senza fine) di certa poesia di questi ultimi anni. Il tutto collato con l'eleganza formale che lo avvicina ad Auden e lo sguardo "impuro" del maestro Derek Walcott.
Anche Sean O'Brien è un nordista (di Newcastle). E di quella città (dove vive Tony Harrison e dove ha sede la Bloodaxe) ha raccolto gli umori e la protesta underclass. O'Brien è tra i poeti quello che forse più lucidamente è stato capace di leggere anche in maniera critica (il suo The Deregulated Muse - testo di critica sugli cinquant'anni della poesia inglese è per autorevolezza e profondità quasi un libro di testo) questo nostro tempo. Nei suoi paesaggi fa quasi sempre capolino qualche scorcio di società ai margini, qualche zona incolta dimenticata da chi per dovere istituzionale dovrebbe rimetterla in sesto.
La vicenda biografica della Bhatt, dall'India agli Stati Uniti, all'Inghilterra e alla Germania (dove vive attualmente) fanno di lei un'emigrante della poesia. Il ricordo che si fa linguaggio - mai abbandonato quello d'origine- ma come mescolato e impastato all'inglese d'approdo l'accomuna ai tanti poeti e narratori (da D'Aguiar a Kureishi, dal già citato Walcott a Ben Okri) che dalle periferie sono giunti in terra d'Albione. Senza rinunciare al sahari e alle proprie abitudini hanno costruito qualcosa; come gli indù un mandir - il loro tempio di marmo merlettato - nella zona nord di Londra (accanto al supermercato della Texaco e non troppo lontano dal mitico stadio di Wembley). Sono linfa vitale per la lingua inglese e a chi storce il naso converrebbe ricordare un certo Joseph Conrad - polacco - tra i migliori prosatori in lingua inglese di questo secolo.
Storie e storie dunque di un ventennio che salvo qualche incidente di percorso - ha chiuso i battenti la collana di poesia della Oxford University Press anche se sull'altro piatto della bilancia potremmo mettere, tra le altre cose, le 7000 copie vendute all'esordio da un Armitage allora ventiseienne - contraddistinto da un'attenzione per la poesia molto particolare. Un piccolo grande rinascimento in attesa degli eventi futuri.

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