Intervista a Jamie McKendrick

D: Quando e come hai cominciato a scrivere poesia?

R: Ero abbastanza giovane per non sapere il come. Per quanto riguarda il quando ho cominciato a pubblicare poesie su riviste intorno ai ventidue anni, però ho aspettato i trentasei anni prima di pubblicare un volume vero e proprio.

D: Chi sono tra i contemporanei (oppure anche tra i non contemporanei) i poeti che ami di più, quelli che torni a leggere e quelli che consideri i tuoi "maestri"?

R: Ho avuto la fortuna di avere due amici a Liverpool, Michael O'Neill e Romesh Gunesekara che più o meno cominciavano a scrivere e a pubblicare nel periodo in cui anch'io avevo cominciato a farlo. Loro due mi hanno insegnato molto con il loro esempio e con i loro suggerimenti. Un'altra fortuna è stata quella di avere Tom Paulin come "maestro" non solo in senso figurato all'Università: davvero non potevo chiedere di meglio. Poi ci sono molti scrittori, tra i contemporanei, che scrivono cose che mi piacciono e che mi convincono - penso ad esempio a Michael Hofmann. È difficile dire quanto e da chi si impara esattamente. Le tracce finiscono con il perdersi, con l'essere nascoste. Certo che per me, come del resto per altri poeti inglesi, ma anche scozzesi, i poeti dell'Irlanda del Nord sono stati un esempio altissimo da seguire. Penso a Heaney, Derek Mahon, Tom Paulin, Paul Muldoon. Poi dovrei ricordare i poeti che mi hanno influenzato agli inizi, a dire il vero continuano a farlo - ricordo le voci americane di Elizabeth Bishop e Roberto Lowell. Entrambi molto importanti per me.

D: Tecnicamente come scrivi? Di getto e poi revisioni il testo oppure come?

R: Si impara a scrivere leggendo, ovviamente con cura, quello che è già stato scritto, ma più che altro si impara scrivendo. Imparare a scrivere significa soprattutto imparare a riscrivere, a giudicare come e se una parola funziona, una frase, una verso una strofa, imparare a sentire la densità o la leggerezza, la lentezza o la velocità del linguaggio e del ritmo, ad ottenere un senso della plasticità del medium. A volte può capitare che tutto questo accada con grande spontaneità, altre volte occorre lavorare molto.

D: Come sta la poesia inglese contemporanea?

R: Mi sembra che più o meno stia bene. Almeno a mio parere.

D: Esiste ancora la possibilità di parlare di una tradizione "inglese"? Ha un significato? E del tanto discusso "multiculturalismo" cosa mi dici?

R: Non sono molto sicuro del fatto che si possa parlare di una tradizione inglese, quanto piuttosto di tradizioni, e spesso si è trattato di tradizioni in conflitto tra di loro. Se penso al passato recente, ad esempio, si può dire che la poesia di Philip Larkin da una parte e quella di Ted Hughes dall'altra siano state entrambe un modo di fare poesia "inglese" anche se parlerei ne loro caso di una englishness in netta contrapposizione, se non addirittura di una certa ostilità. Ci sono tradizioni che si sono assopite e poi risvegliate. Poi secondo me non ha senso pensare alla poesia inglese di questo secolo senza prendere in considerazione il forte influsso della poesia americana. È difficile dire cosa sia questo "multiculturalismo": mi sfugge un po' il senso. Chiunque usi una lingua finisce con il trasformarla un poco, con l'aprire nuove possibilità attraverso le quali riconsiderare il mondo all'interno della lingua. Venendo da una città inglese come Liverpool, che più che altro è irlandese, ma con forti comunità africane, cinesi, ebraiche, sento poca "fedeltà" verso qualsiasi tradizione strettamente inglese. Questo non esclude che senta la vicinanza di poeti che sono "inglesi" per definizione. Penso ad esempio ad Edward Thomas - il quale comunque fu molto aiutato dal suo amico americano Robert Frost.

D: Hai vissuto in Italia per diversi anni. Da poeta, traduttore e da critico quali sono i tuoi rapporti con la poesia italiana?

D: Difficile dire come il mio soggiorno in Italia abbia cambiato il mio modo di fare poesia. Un contatto, un'influenza, un impatto ci sono stati certamente. Vivere in un luogo del quale, almeno all'inizio, non conosci la lingua produce un effetto di intensificazione ma anche di alienazione sul modo in cui utilizzi la tua lingua madre. Con effetti a volte liberatori, a volte ingombranti, altre volte un senso di nostalgia o anche di profondo rinnovamento. Certo è che sento una gratitudine immensa per la possibilità che mi è stata data di leggere i grandi - da Dante a Montale - senza dovere passare attraverso la traduzione - per quanto possa essere buona. Spero che queste letture abbiano fatto il loro corso e cambiato il mio modo di fare poesia. Ma non è che ci sia garanzia di questo. Per quanto riguarda il tradurre, seguo gli impulsi e le affinità. In questo momento, ad esempio, sto lavorando alla traduzione di Valerio Magrelli, un poeta che ammiro molto.

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