Plath, una vecchia recensione

Operazione centrata in pieno quella del volume dei Meridiani Mondadori dedicata a Sylvia Plath e curato da Anna Ravano (con una preziosa introduzione di Nadia Fusini). Per tutta una serie di ragioni. La Plath va finalmente a occupare il ruolo che merita nella poesia del novecento, ruolo spesso messo in secondo piano dalle ben note vicende biografiche. È la voce autentica di poeta quella che ci viene restituita dalla prima parte del volume. Ci sono tutte le poesie, quelle uscite in volume e quelle giovanili ordinate in modo cronologico; permettono al lettore di seguire con grande precisione l’incredibile traiettoria che nel giro sette anni (dal 1956 al 1963) portò la Plath a trovare la propria voce, nitida, distinta, quella di un classico del nostro tempo. Seguono il romanzo La Campana di Vetro (1963) e gli illuminanti testi (anche di poetica) compresi nella raccolta Johnny Panic e la Bibbia dei Sogni e altre prose. Per chi desideri un ritratto più intimo della Plath ecco l’abbondante scelta tratta dai “Diari”, testi esemplari per potere entrare nella fucina di chi batte parole e ritmi.
Seguiamolo dunque il percorso cronologico dei versi perché sono i segni lasciati da una poetessa determinata a trovare la via verso una modalità di espressione individuale. La prima immagine che abbiamo di lei ce la racconta Ted Hughes (suo marito dal 1956, lo aveva conosciuto a Cambridge dove era giunta, dall’America, grazie a una borsa di studio). Fiera, decisa, come ci segnala la Fusini, istintivamente portata all’eccellenza si esercita nelle varie forme e nei vari metri della poesia inglese. Parte di quegli esperimenti troveranno spazio in The Colossus (1960), l’unico volume di poesie a non uscire postumo. Con una grande penna rossa cerchia sul dizionario le parole che più la suggestionano. Un esempio di questo primo periodo lo troviamo in Cercatrice di Cozze a Rock Hunter. Per dirla con Heaney: “il poeta ci avverte di avere guadagnato le sue credenziali e di conoscere il suo mestiere.” La Plath dimostra in questa lirica di essersi impadronita in maniera quasi perfetta del verso sillabico (strofe composte da sette sillabe senza rima). Ha fatto proprio anche il metodo mitico, innestando la biografia sullo scheletro fossilizzato dell’archetipo (esempi di questo Full Fathom Five e Lorelei). Manovra ormai con perizia i molti strumenti tecnici che la poesia le ha messo ha disposizione. Eppure, qualcosa manca. Arriva poco dopo, ed è ancora Hughes a raccontarci la genesi del poema Poemetto per un compleanno che, scritto nel 1959, chiuderà il volume The Colossus and other Poems. Nel settimo componimento che chiude il poema, Le pietre, la Plath scrive: Love is the bone and sinew of my curse - L’amore è l’osso e il nervo della mia maledizione. Sulla fossile mineralità dell’osso, sulla scoperta e vitale linea del nervo andrà a battere l’essenza del suo verso.
Non avrà più bisogno dei poeti che ha letto e che ama. Dylan Thomas dal quale prende la lucida capacità visionaria di chi cammina sul filo di rasoio dell’apocalisse. E anche un po’ di quella tecnica di concentrazione di significati opposti in cui eccelleva il gallese. Wallace Stevens, aereo e astratto, Robert Lowell, il cristallino della biografia che non si piega all’occasione del vissuto, e altri ancora tra i quali Roethke, Sexton, Berryman, Rich.
Lo sguardo è fisso su quel movimento di intercettazione che bene descrive in Un Confronto dalla raccolta Johnny Panic e la Bibbia dei Sogni e altre prose: “Mi riferisco alla poesia privata, di lunghezza media, una normale poesia. Come posso descriverla? Una porta si apre, una porta si chiude. Nell’intervallo, avete intravisto qualcosa: un giardino, una persona, un temporale, una libellula, un cuore, una città.” E in chiusura dello stesso saggio paragonando l’esperienza della scrittura poetica a quella narrativa: “Anche la porta del romanzo, come quella della poesia, si chiude. Ma non così in fretta, né con tanta maniacale, inappellabile definitività.”
Si tratta esattamente di quell’inappellabile definitività che separa la carne dall’osso. Ci sono immagini nell’ultima poesia della Plath capaci di accerchiare il lettore, di scardinare l’orizzontalità del verso e scendere in picchiata verticale sino ai gangli dell’agire poetico. Ne scelgo alcune, quelle accomunate dal tema ricorrente della fissità ossea. Se ne potrebbero individuare molte altre. The moon has nothing to be sad about/staring from her hood of bone – La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,/non ha motivo di essere triste (The Edge – Il Limite); The sap…/that drops and turns/A white skull,/eaten by weedy greens – La linfa… /che cade e ruota,/un bianco teschio/mangiato da erbe filacciose (Words – Parole); e ancora, da Sheep in Fog – Pecore nella nebbia – My bones hold a stilness, the far/Fields melt my heart – Le mie ossa racchiudono un’immobilità, i campi/ lontani mi sciolgono il cuore.
È il regno dello stupefacente, del perturbante; la Plath è in trance compositiva, trascinata da una forza esasperata, che la supera ma non la doma. Pochi giorni prima di morire scrive Palloncini e Limite – è tra quei due poli che oscilla. Portare le parole sino a quelle profondità significa compiere un viaggio laddove, come avrebbe detto Thom Gunn in una poesia da Fighting Terms (For a Birthday), words no longer help. È il quel momento che nasce la vera, dura, minerale parola poetica: l’incontro di una voce personale che prende il timbro dell’universale, che si intreccia al filo energetico che corre sopra/sotto il vissuto, l’esperienza della realtà, in un coccio di io/altro, sasso e pietra focaia che genera la scintilla. E questo tanto più quando quella discesa nella verticalità si configura anche parallelamente in una calata a fronteggiare il demone. Demone dalla testa bifronte, ambiguo generatore di energia ma anche capace di annichilire, vampiro dell’essere. Ci vuole il coraggio e la sfrontatezza dei trenta anni della Plath per uscirne sconfitta (nella vita) e vincente (nella poesia). Con in mano una delle teste del demone, con l’altra, la propria, appoggiata dentro al forno in attesa della morte. Nelle prime ore di lunedì 11 febbraio 1963 Sylvia posa accanto ai letti dei bambini del pane e del latte, spalanca la finestra della loro camera e sigilla le fessure della porta con nastro adesivo e asciugamani; poi scende in cucina, sigilla anche qui tutte le fessure, si sdraia con la testa nel forno, la guancia appoggiata a un tovagliolo ripiegato e apre il gas (dalla cronologia a cura di Anna Ravano).
Eppure, non si può non essere d’accordo con Heaney quando nel saggio Gli Instancabili colpi di Zoccolo: Sylvia Plath da Il Governo della Lingua afferma che la poesia migliore nasce nel momento in cui non si cede alla vita e al suo dolore, “Vorrei anche sostenere che l’opera più valida dell’ultima Plath è quella in cui l’amarezza e l’abbandono all’oblio sono in una certa misura vinti o tenuti in equilibrio almeno momentaneo dalla forza essenzialmente gratificante del puro impulso lirico”. Nel momento in cui la si supera e con il cuore oltre l’ostacolo si finisce per praticare zone sconosciute e infide. Eppure la bussola del poeta sa che da quelle parti una voce risponde.
Al fanciullo del Blake dei Songs of Innocence viene chiesto di scrivere parole sull’acqua – Colsi allora una canna/Ne feci una penna rurale/e fu turbata l’acqua chiara. Blake usa il verbo “to stain” molto più forte della traduzione ungarettiana “turbare”. “To stain” significa macchiare. È quanto farà la Plath elaborando in modo “scabroso” l’idea imagista del “complesso emotivo e intellettuale in un istante di tempo” e quella eliotiana dell’impersonalità poetica. L’esperienza è rivissuta in un fremito di assenza di tranquillità, si potrebbe dire di trance sciamanica per avvicinarci a Ted Hughes, in un affondo tra immagini dure, mute, silenziose. Sembra quasi che Plath rinunci alla figura ma non come avrebbe fatto in quegli stessi anni Mark Rothko stemperandola dentro a un nulla metafisico, piuttosto, accompagnando la serena follia di un Francis Bacon, facendola vibrare in un’umanissima torsione che spezza il collo. Siamo profondamente pessimisti – disse Bacon – ma ogni nostra cellula è imbevuta del più profondo ottimismo. Raccontava, a modo suo, avvertendolo sulle dita che sfioravano il pennello, la diatriba tra le pulsioni freudiane, la spinta a essere contrapposta al desiderio dell’inorganico, della stasi completa, dell’immobilità.

Commenti

  1. Grazie per questa recensione.

    Sono una laureata in lingua inglese con la passione per sylvia plath, ho fatto una tesi su di lei e aperto un sito però ho poco tempo per stargli dietro, mi piace ogni tanto leggere qualcosa che mi ricordi quanto la amo ;)

    ciao, sara

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