Lavinia Greenlaw
L’innocenza del Radio
Con la testa piena di orologiai svizzeri,
lei accettò un lavoro alla fabbrica New Jersey
dipingeva numeri luminosi, copiando lo stile
che si riteneva comune nelle stanzette illuminate a candela
di qualche villaggio alpino bloccato dalla neve.
Tenendo ciascun quadrante alla luce
vedeva di sfuggita il farmacista
che misurava e controllava. Era abbastanza vecchio,
aveva un volto gentile e un nome straniero
che mai osò pronunciare: Sochocky.
Per scherzo si dipinse denti e unghie,
saltò addosso alle altre ragazze tornando verso casa.
A letto quella notte rise forte
e si accarezzò con dieci verdi punta della dita.
Non riuscendo a prendere sonno, il farmacista ripassò ogni numero
sul quadrante che aveva rubato dal pavimento della fabbrica.
Amava la curva dei suoi otto,
il modo in cui lei portava alle labbra il pennello bagnato,
e, con un delicato incresparsi della bocca,
ammorbidiva le setole in una punta perfetta.
Con gli anni la vide spegnersi.
I dottori rinunciarono, le rimossero metà mandibola
e accusarono la sifilide quando il femore si spaccò
mentre arrancava su per una rampa di scale.
Diagnosticando infedeltà, il farmacista sentenziò
l’innocenza del radio, un tipo di radiazione
che non poteva essere sopportato dal corpo di una donna,
solo preso tra i suoi denti. Andava orgoglioso
della sua vernice e tenne discorsi pubblici
su come poteva essere impiegata dagli artisti per trasmettere
la qualità della luce lunare. Sochocky espose
questi paesaggi brillanti alle proprie pareti,
la fede che si reggeva da sola in una stanza
piena di cieli tiepidi che frantumavano l’oscurità
e prosciugavano il sangue del suo colore.
Le sue ossa pericolose non riuscirono a tenere il segreto.
Distese ai raggi X, prima che un solo bottone fosse premuto,
impressionarono la lastra riproducendosi
come un fantasma, non come uno scheletro, una fotografia
di cui non riuscì a bloccare sviluppo e fissaggio.
Con la testa piena di orologiai svizzeri,
lei accettò un lavoro alla fabbrica New Jersey
dipingeva numeri luminosi, copiando lo stile
che si riteneva comune nelle stanzette illuminate a candela
di qualche villaggio alpino bloccato dalla neve.
Tenendo ciascun quadrante alla luce
vedeva di sfuggita il farmacista
che misurava e controllava. Era abbastanza vecchio,
aveva un volto gentile e un nome straniero
che mai osò pronunciare: Sochocky.
Per scherzo si dipinse denti e unghie,
saltò addosso alle altre ragazze tornando verso casa.
A letto quella notte rise forte
e si accarezzò con dieci verdi punta della dita.
Non riuscendo a prendere sonno, il farmacista ripassò ogni numero
sul quadrante che aveva rubato dal pavimento della fabbrica.
Amava la curva dei suoi otto,
il modo in cui lei portava alle labbra il pennello bagnato,
e, con un delicato incresparsi della bocca,
ammorbidiva le setole in una punta perfetta.
Con gli anni la vide spegnersi.
I dottori rinunciarono, le rimossero metà mandibola
e accusarono la sifilide quando il femore si spaccò
mentre arrancava su per una rampa di scale.
Diagnosticando infedeltà, il farmacista sentenziò
l’innocenza del radio, un tipo di radiazione
che non poteva essere sopportato dal corpo di una donna,
solo preso tra i suoi denti. Andava orgoglioso
della sua vernice e tenne discorsi pubblici
su come poteva essere impiegata dagli artisti per trasmettere
la qualità della luce lunare. Sochocky espose
questi paesaggi brillanti alle proprie pareti,
la fede che si reggeva da sola in una stanza
piena di cieli tiepidi che frantumavano l’oscurità
e prosciugavano il sangue del suo colore.
Le sue ossa pericolose non riuscirono a tenere il segreto.
Distese ai raggi X, prima che un solo bottone fosse premuto,
impressionarono la lastra riproducendosi
come un fantasma, non come uno scheletro, una fotografia
di cui non riuscì a bloccare sviluppo e fissaggio.
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