Ultimo accesso

Nessuna sorpresa quando l’impiegata della banca dice – per chiudere definitivamente la cassetta di sicurezza di vostra madre – dobbiamo effettuare l’ultimo accesso.

L’ultimo accesso.

Ci porta (io e mio fratello) nel consueto caveau e ci apre la consueta casettina vuota da più di vent’anni. Lo sappiamo tutti e tre che è vuota ma è l’ultimo accesso e la procedura richiede che venga fatto per ottemperare alle regole dell’istituto di credito. Ottemperiamo e chiudiamo.
Sprofondato nella sedia in attesa che tutte le carte siano a posto ho tempo per ripensare a quanto l’idea di ultimo abbia occupato i miei pensieri da sempre.

Penso al volume “Till I End my Song” curato da Harold Bloom e acquistato da Foyles a Londra, qualche anno fa. Raccoglie versi ‘finali’ di grandi poeti. Questi di Lowell, ad esempio, in una poesia intitolata “Epilogue”:

We are poor passing facts,
warned by that to give
each figure in the photograph
his living name

Penso a una mostra su De Pisis a Ferrara qualche anno fa, e a quella Natura morta marina con la penna (1953) http://pinacotecabrera.org/collezione-online/opere/natura-morta-marina-con-la-penna/ che pensai potesse essere perfetto come ultimo quadro (e forse lo fu davvero).

Penso al Museo Van Gogh a Amsterdam e a quei terribili corvi che volano tra nuvole nere nell’ultimo quadro dipinto dal grande Vincent. https://www.vangoghmuseum.nl/en/collection/s0149V1962

Penso alla Plath che sigilla le porte e mette la testa dentro il forno del gas con i bambini che dormono qualche stanza più in là. Al 23 di Fitzroy Road, Londra. 

Gli ultimi accessi, penso, è un po’ come se tenessero aperto, solo per qualche istante, uno spiraglio su cosa ci possa essere dopo quell’ultimo, come se fossero un volatile prefisso ‘pen’ in grado di frenare la corsa, bloccare i fotogrammi in un esasperato ralenti (con la pronuncia alla francese della r e la moviola tutta nasale tra la n e la t come lo pronunciava mio padre).
Come potessimo dare una sbirciatina, sneek peek sull’ulteriore.

Penso a quel bar a pochi passi dall’ingresso di un cimitero con tombe vestite di colori sgargianti. Si chiamava el último adios, poco fuori il fantasmagorico centro di Chichicastenango, Guatemala.



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