locus amoenus


Se la volumetria architettonica di questo hotel, registrata in chissà quale parte della mia memoria mentre vi entravo circa tre ore fa, non mi tradisce, ora, in questo punto, in questo preciso istante mentre me ne sto assiso sul W.C. della mia cameretta singola al primo piano, il mio fondoschiena infreddolito dovrebbe trovarsi in perfetta linea d’aria a perpendicolo sul capo stempiato del candidato della lega che tiene una specie di comizio per i pochi convenuti nella saletta a piano terra.
Non so se mi sono spiegato bene. Se, per dire, il vuoto molecolare delle pareti che ci dividono dovesse trasformarsi in vuoto vero, bene, accadrebbe, per legge di gravità, l’irreparabile.
Mentre rifletto e scrivo cerco di trarre conseguenze decisamente prosaiche da questa strana congiuntura astro spaziale. Non le espliciterò.
Al mio arrivo il proprietario dell’alberghetto sito in lacustre località amena al confine con il paese neutrale per eccellenza mi ha pure offerto di fare numero. A patto di sorbirmi un’oretta di retorica vagamente razzista avrei avuto accesso gratuito a un lauto buffet offerto dal suddetto candidato. Trattasi di win-win situation perché l’albergo viene pagato a numero di partecipanti. Win per me che mi sbafo il buffet, win per lui che viene pagato una testa in più.
Bofonchio una risposta imbarazzata, prendo la chiave e mi posiziono, per urgente necessità, nel locus amoenus di cui sopra, o sotto, a seconda del punto di vista.
Perché sono qui, a quasi quattrocento chilometri da casa?
Perché sono a pochi chilometri dal cimitero dove riposano, riuniti dopo poco meno di vent’anni, mio padre e mia madre. Sono riuniti già da qualche mese, in verità, ma io sono qui per certe scartoffie e faccende da sbrigare.
Ci venivo da bambino, mai del tutto volentieri da quando fui sgridato dal nonno per un eccessivo consumo di biscotti la mattina per colazione. È vero, finii la scatola di latta una volta ma si sa, chi mi conosce lo sa, la mattina ho sempre una gran fame. La presi parecchio a male, me ne ricordo ancora oggi a distanza di tanto tempo. Come quella volta che un poeta inglese, ospite com’ero nella bellissima casa della compagna sulla costa barcellonese, ebbe rimostranze sulla quantità di jam che avevo messo sopra il toast.
Ora quando penso ai miei, a ciò che resta dei miei, mi viene sempre in mente quella poesia di Muldoon in cui descrive la tomba dei suoi, di come la morte della madre, successiva a quella del padre, avesse ricreato, per via della disposizione dei loculi sovrapposti, una condizione di normalità. La madre sopra, in posizione dominante, il padre sotto, nel senso di sottomesso. Mi era parsa di una cattiveria inaudita e dunque perfetta come poesia ma ora riesco a trovare spigolature di senso che allora mi eludevano.
Fa freddo sul lungolago e incontro pochi bipedi che accompagnano il loro quadrupedi. Moltissime case sono chiuse, un paio di bar in lontananza. Di fronte, l’infinita e irrimediabile tristezza del lago in inverno.
Al piano terra rumore di sedie che strisciano, tintinnio di bicchieri riposti. Il buffet volge al termine.
Sento che si parla di garantire sicurezza per tutti i cittadini, stanchi di, stufi di.
Ma chi ci garantisce su quello che resta di ciò che era un tempo e ora non è più?
Chi ci garantisce che due cuori spenti possano ritrovare un luogo comune per sola vicinanza geografica?
Chi ci garantisce la realtà delle aritmie provocate dal ricordo, la verità del lago nella sera che s’addensa?
Mi pare che sarebbe più sensato garantire insicurezze.



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