Arrivederci, Seamus

Era il giugno del 1991 e io, dopo sei mesi passati a Galway, dovevo rientrare in Italia perché il mio Erasmus era finito. Avevo scelto l’Irlanda perché la tesi era a tiro e volevo farla su un autore che non fosse ‘mainstream’, che fosse un contemporaneo, che da noi non lo conoscesse nessuno, insomma volevo fare la tesi che ogni studente di letteratura inglese, almeno ai miei tempi, desiderava fare.
L’anno prima di partire mi era capitato tra le mani un volumetto sdrucito della Faber, scritto da un poeta irlandese. Il libretto si chiamava ‘Death of a Naturalist’ e, chiedendo in giro, nessuno mi aveva saputo dire niente. Era un ottimo inizio. Solo poi avrei scoperto che era giù uscito un volume della Fondazione Piazzolla curato da Franco Buffoni e che Mondadori stava pubblicando ‘Station Island’. Dalle parti dell’università di Bologna, almeno dalle parti che frequentavo io, di quel poeta nessuno aveva mai sentito niente. Galway si rivelò un posto meraviglioso, il mio Erasmus là fu come stare dentro un film fatto di Guinness, party al campus, un sacco di gente intelligente.
Era deciso: avrei scritto la tesi su quel poeta lì. In una delle strade del centro c’era una bellissima libreria, Kenny’s, si chiamava: alle pareti erano appese un sacco di foto di scrittori passati da quelle parti e, ovviamente, ce n’era una che ritraeva anche, a quel punto ‘mio’, poeta con accanto la figlia. Chiesi lumi al libraio, accennai ai miei propositi e lui, senza pensarci su due volte mi disse, ‘ma vallo a trovare, ti scrivo l’indirizzo di casa sua su un foglietto, ti offre una birra, fate due chiacchiere, sarà felicissimo.’
Ricordo che comprai tutti gli altri libri che aveva pubblicato e me li portavo dietro nel tragitto in bici da casa all’università. Pioveva un sacco, non una novità per l’Irlanda, e io arrivavo sempre zuppo sulla parte davanti dei pantaloni. La cosa bella era che non ci faceva caso nessuno se giravi per la biblioteca con i pantaloni zuppi sul davanti e qualche volta capitava pure di vederne qualche paio appeso al termosifone perché si asciugasse (mi sono sempre chiesto come andassero in giro i proprietari di quei pantaloni e forse, banalmente, ma ci penso solo ora, se ne portavano un paio di scorta da casa).
Ricordo che dissi con uno dei professori di letteratura di cui seguivo le lezioni: ‘se non fossi venuto qua non avrei capito perché c’è tanta acqua nelle poesie del poeta su cui avevo deciso di scrivere la mia tesi di laurea’.
L’ultima settimana, prima di partire, dicevo, la passai a Dublino. Andavo tutti i giorni al Trinity College per raccogliere materiale per la tesi. Ricordo lo stupore quando vidi che si potevano cercare i libri con un computer che, somma meraviglia, ti restituiva le occorrenze del catalogo, in meno del tempo che ci mettevo a girare la pagina di un libro del ‘mio’ poeta. Il volo era fissato, la valigia stracarica di libri e per puro caso scopro che il ‘mio’ poeta fa una lettura pubblica in un teatro del centro.
Non c’è nemmeno bisogno di dire che il foglietto che mi aveva dato il libraio di Kenny’s era rimasto arrotolato nella tasca per mesi e che quella pinta di Guinness me l’ero bevuta con lui un sacco di volte, ma solo nel risvolto della mia incrollabile timidezza.
Mi procurai il biglietto dopo una lunga coda seduto sotto la consueta pioggia. Entrai nel teatro e fu lo stupore. Era strapieno. Il ricordo ingrandisce sempre le cose ma il posto mi parve enorme e pienissimo. In sala riconobbi Derek Walcott e questo già mi parve un miracolo ma poi, qualcuno forse me l’additò, anche Paul Simon, sì, quello di Simon & Garfunkel.
Il ‘mio’ poeta era una specie di rockstar dalle sue parti anche se le due anziane sedute davanti a me dicevano. ‘ma sì dai, lui ha sposato la Marie, quella dei Devlin, la cugina di quella, la nipote di quell’altra’. Anche quella cosa mi ha fatto capire un po’ di più il ‘mio’ poeta. C’era Paul Simon a ascoltarlo in platea ma anche la sensazione che tutti conoscessero tutti, un po’ come succede in certi paesi dalle nostre parti. I critici letterari avrebbero poi scritto della capacità del ‘mio’ poeta di coniugare ‘grande’ e ‘piccolo’, ‘lontanissimo’ e ‘vicinissimo’.
Lesse su un palcoscenico spoglio. Il libro si chiamava ‘Seeing Things’ – ‘Vedere Cose’ e io le vidi proprio quelle cose, sgranarsi davanti agli occhi in un tripudio di consonanti che mi sembrava Hopkins redivivo ma anche certi scivolamenti dolci dolci su strane varianti tipiche di quella letteratura che tutti poi avrebbero definito ‘in’ lingua inglese.
Il giorno prima del rientro le vecchie ‘converse’ bianche s’erano sfondate, era quasi Luglio e mi restavano solo un paio di scarpe invernali. La padrona di casa che mi aveva ospitato per una settimana deve essere stata mossa a pietà per quel mio inconsueto abbigliamento perché mi disse che di soldi non ne voleva. Protestai, ero stato a casa sua per una settimana, lei mi rispose di comprarmi una bottiglia di qualcosa e di bermela con i miei genitori a casa.
Poi a casa bevvi la bottiglia e scrissi la tesi sul ‘mio’ poeta. Poi l’ho anche incontrato diverse volte e mi ricordo la risata che si fece quando gli dissi del librario di Kenny’s e si ricordava anche della lettura perché dopo Paul Simon li aveva invitati tutti, Walcott compreso, a bere qualcosa nel suo albergo.
Lo ricordo a Bologna, lui aveva vinto il Nobel e io avevo già lavorato alla traduzione di alcuni suoi testi. Si alza da tavola, - lui – si – alza – da - tavola e mi viene incontro per stringermi la mano. E mi ringrazia per il mio lavoro e mi chiede un sacco di cose. Lo guardavamo tutti come avremmo guardato Roberto Baggio se ci avesse raccontato di come aveva fatto a segnare qualcuno dei suoi gol.
Ricordo il giorno in cui chiamarono da Mondadori per chiedermi se mi andava di tradurre il suo ultimo libro. Tradurre un libro del ‘mio’ poeta. Chi, io? Ma siete sicuri?
Lo ricordo a una fichissima kermesse letteraria. Io ero con mia moglie e mio figlio che aveva meno di cinque anni. Alla fichissima cena di gala a bordo piscina il figlio resistette quanto poté ma a un certo punto decidemmo di rientrare. Lo salutai e lui mi borbottò in un orecchio ‘beato te che hai la scusa buona per andare via’.
Volevo salutarlo, il ‘mio’ poeta, adesso che anche lui se n’è andato via.

Arrivederci, Seamus.

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